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sabato 30 ottobre 2010

Antichi luoghi di culto in Liguria 1


L’antica chiesa del S.S. Salvatore di Ortara a Ripalta
di Jonathan Ferroni

Ripalta è un minuscolo paese di venticinque anime sito sulla cima di un colle che fa da spartiacque tra la Val di Vara, là dove i detriti del fiume hanno formato la piccola piana su cui sorgono Borghetto Vara e Brugnato, e le valli del torrente Cassana.
Della storia di questo borgo non si sa molto: è stato fondato prima dell’anno mille, verosimilmente nella prima metà del X secolo e, probabilmente, i suoi abitanti hanno in seguito fondato Borghetto, nel letto del torrente. Sulla cima della collina sorgeva un importante castrum, già proprietà dei Fieschi e dei Malaspina, di cui si è persa quasi ogni traccia, tranne alcuni muri a secco, ormai ridotti al calcio e una vaga memoria orale.
Tuttavia il villaggio si trova su un fondamentale crocevia tra due antiche strade. Quella, in direzione EO che collegava il golfo della Spezia con il passo del Bracco e il genovesato e quella, in direzione NS, che collegava la Foce del Bardellone - e quindi Levanto, Bonassola e le Cinque Terre - al passo dei Casoni e, da lì, al parmense e al piacentino.
Quest’ultima è stata frequentatissima dall’epoca pre-romana fino ai primi del ‘900, poiché costituiva una delle più importanti arterie commerciali dal mare all’entroterra (sale, olio, vino, ecc.). Inoltre, questa antica via si snodava tra alcuni dei più importanti centri antropici preistorici della Val di Vara: il castellaro del Bardellone, il castellaro di Pignone e quello di Cassana, passando per la Val Marveia, luogo di ritrovamento di petroglifi e lavorazioni rupestri, per arrivare, infine, nella zona del Monte Dragnone di Zignago, famoso per il ritrovamento dell’omonima statua-stele e importante per la presenza di un castellaro e di un santuario.
Doveva, quindi, trattarsi di un percorso significativo per le genti preistoriche, i cui discendenti di epoca storica hanno lentamente tramutato i villaggi rupestri e i castellari in borghi popolosi e grandi castelli che hanno visto il massimo splendore nel medioevo, come per esempio il castello di Celasco, che recentemente è stato localizzato in vetta al monte Bardellone, poco distante dall’omonimo insediamento preistorico(1).
Per quanto riguarda l’altro percorso, si tratta dell’antica via romea che dal genovesato, attraverso il passo del Bracco, si congiungeva probabilmente con la via Francigena nella Val di Magra. Tuttavia, il percorso romanico ricalcava, almeno in parte, un itinerario verosimilmente molto più antico, che costituiva la direttrice principale dal golfo ai monti, risalendo il corso naturale del Vara.
Ebbene, Ripalta si trova al crocevia tra questi due itinerari preistorici per cui, seppur sia troppo azzardato ipotizzare la presenza di un castellaro sul quale si sarebbe poi sviluppato l’insediamento castrense, data l’assoluta mancanza di dati archeologici, sembra comunque sensato ipotizzare che l’originale stanziamento del villaggio non fosse alto-medioevale bensì pre-romanico.
A rinforzo di questa tesi, sopravvive tra gli abitanti di Ripalta la tradizione che, prima della pieve di San Nicolò, edificata nel XIV secolo su una precedente costruzione romanica, vi fosse un’altra chiesa, costruita in epoca remota, attorno alla quale si sono svolti eventi "miracolosi".
Stiamo parlando della chiesa del S.S. Salvatore di Ortara, ubicata proprio lungo la via romea di cui si è parlato prima, a metà strada tra Ripalta e Boccapignone, poco lontano dal bivio che scende verso Memola.
La tradizione parla di un edificio religioso, con annesso ospizio, eretto in epoca antica da alcuni monaci per celebrare l’apparizione mariana avvenuta nella circostante selva di castagni. Un quadro, raffigurante la Madonna con Bambino seduta su un castagno, si trovava proprio all’interno della chiesa. Tale edificio è esistito fino al 1752 quando, durante una memorabile alluvione con conseguente straripamento del Vara, è stato trascinato a valle insieme a tonnellate di terreno a causa delle piogge torrenziali.
Ma non è finita. Tradizioni più recenti narrano altre apparizioni della Madonna, avvenute quasi trent’anni dopo la distruzione del santuario a lei dedicato.
In questo caso, essa è apparsa ad alcuni pastorelli di Padivarma (quali migliori testimoni di una verità soprannaturale?) proprio di fronte alle rovine della chiesa, dove essi stavano pascolando un piccolo gregge.
L’apparizione, che si è ripetuta anche il mercoledì santo del 1779, è stata testimoniata anche in altre circostanze da una coppia di giovani che stavano percorrendo la strada romea verso Ripalta.
Proprio nel 1779, quindi, si decide di ricostruire il santuario e, durante i lavori, la Madonna appare di nuovo ai carpentieri in pausa per il pranzo(2).
Attualmente, l’edificio non esiste più. Non si sa in che circostanze sia stato distrutto, anche se la memoria orale accenna appena ad una nuova alluvione in tempi imprecisati.
Tutta questa storia è molto importante per ricostruire, tramite la sola fonte orale, quello che potrebbe essere stato il santuario nell’antichità e, di conseguenza ipotizzare un’origine pre-romanica del borgo di Ripalta. Ora spiegheremo come.
Innanzitutto, la tradizione parla di una chiesa molto antica, edificata in un’epoca remota di cui non si sa nulla e questo primo dato è già rilevante di per sé poiché colloca il riconoscimento della sacralità del luogo in un tempo talmente lontano da risultare sconosciuto anche alla leggenda.
È possibile ipotizzare, anche se si tratta solo di una congettura, che questo tempo sia almeno pre-medioevale.
Inoltre, viene detto che i monaci costruirono l’edificio in onore di una Madonna del Castagno che doveva essere apparsa ripetutamente in quel luogo, fino a convincerli che la volontà della Vergine era di essere venerata proprio in quel punto preciso.
Del resto, non era una novità. Diverse leggende di fondazione di santuari mariani riportano storie molto simili: la Madonna appare due, tre volte sempre nello stesso luogo e la gente capisce che deve costruire una chiesa in suo onore.
Non solo, il quadro rappresentante la Vergine che viene collocato (o ritrovato) in situ è ricorrente nelle leggende di apparizioni. Fulcro, ad esempio, della storia del santuario di Roverano, presso L’Ago, di cui parleremo in seguito.
In più, la Madonna è legata, sia nel dipinto che nelle apparizioni al castagno. Proprio quest’ultima constatazione ci permette di interpretare le altre.
Il castagno, infatti, come anche altri alberi, veniva ritenuto sacro dalle popolazioni liguri preistoriche(3), oltre che dai Celti che, come noto, avevano un rapporto particolare con i Liguri, mai ben chiarito, di parallelismo o di influenza culturale. Probabilmente entrambi.
Fatto sta che Cassana, antico borgo distante meno di un chilometro da Ripalta, deve, con tutta probabilità, il suo nome proprio al termine celtico cassanus, che significa quercia, indicando, insieme a svariate incisioni e bassorilievi a tema diffusi in tutta la Val di Vara, l’estrema importanza dell’albero nella simbologia antica.
È più che possibile, quindi, che nei boschi, vicino ad un importante percorso dell’antichità, si trovasse un castagno (o una selva di castagni) ritenuto sacro in epoca preistorica ed è del tutto plausibile che tale luogo sia stato sconsacrato senza successo in epoca di cristianizzazione e che si sia, quindi, deciso di "convertirlo" in luogo di fede cristiana.
Non sarebbe una novità neanche questa.
In Liguria, come in molti altri luoghi, il cristianesimo fu spietato con i culti cosiddetti pagani. Tentò di estirparli, li sopresse col sangue, spezzò gli idoli. Ma questo non scoraggiò le genti liguri.
Si decise, allora, di giustificare i pellegrinaggi e le ritualità pagane legate agli elementi della natura semplicemente attribuendo a questi ultimi dei connotati cristiani.
La "fonte megalitica" diventò, così, la fonte della Madonna, la "salita rituale del monte" si tramutò in pellegrinaggio al santuario - edificato nel frattempo sui resti di un cromlech - e così via. Questo permetteva ai missionari di cristianizzare i pagani senza tramutare le loro abitudini, verosimilmente molto dure a morire.
Senza dirottare i pellegrinaggi e senza dover pubblicizzare nuovi luoghi di culto, i siti religiosi dei pagani venivano semplicemente riciclati.
Perché non supporre quindi, che anche il castagno sacro dei boschi di Ripalta sia stato convertito in castagno della Madonna?
Le apparizioni mariane erano spesso simbolo di una conversione e le storie in tal senso venivano diffuse ad hoc proprio a questo scopo.
Ma non basta, perché accanto al castagno del miracolo è stata edificata anche la chiesa, il che conferma che questo luogo doveva essere tanto importante per la spiritualità delle tribù liguri del territorio da non poter essere semplicemente convertito ma, addirittura, colonizzato come sacrario cristiano.
E qui entra in gioco la toponomastica.
La chiesa è intitolata al Salvatore di Ortara, tuttavia, questo Ortara sembra non essere attribuito a nessuna località specifica in zona, né in tutta la Liguria. Il toponimo sembra sconosciuto fino ad arrivare al Lazio, dove il famoso monte Ortara domina la provincia di Frosinone o, seppur troncato, fino al Lago d’Orta, nel territorio un tempo occupato dai Liguri Levi e Marici. Sembrerebbe una buona pista, quest’ultima, invece, facendo ricerche più approfondite, si evince che il toponimo Orta viene attribuito al lago solo a partire dal XVII secolo.
Questo Ortara può anche far pensare ad una derivazione dal latino hortus, col significato di giardino oppure orto ma, intorno alla chiesa, non c’erano orti o prati: solo il bosco.
L’ultima ipotesi, la più suggestiva, è che Ortara sia una metatesi linguistica di Ostara, celebre festa pagana di primavera legata alla dea nordica Eostre, ben conosciuta dai Norreni ma anche dai Celti che, come ricordiamo, avevano una certa influenza culturale sul territorio ligure.
La celebrazione di Ostara è anch’essa stata inglobata dal cristianesimo come altre festività pagane ed attualmente è la nostra Pasqua. In tedesco, ancor oggi, il termine utilizzato per indicare la Pasqua è Öster ed in inglese Easter. 
Lo stesso coniglio pasquale non è che una variante della lepre, animale sacro proprio alla dea. La lepre, in quasi tutte le culture del mondo, è associata alla luna, alla fertilità e alla rinascita, per cui la divinità Eostre, che in alcune raffigurazioni è rappresentata con testa di lepre(4), è assimilabile per molti versi alla Diana/Artemide e alla Venere/Afrodite dei romani e greci e alla Ishtar/Innanna dei babilonesi.
La stessa pronuncia del nome Ishtar, infatti, non diverge poi tanto da Easter.
Ebbene, Eostre è anche una divinità legata al culto arboreo. Infatti, la festività a lei dedicata è l’equinozio di primavera, anche chiamato Festa degli Alberi, in cui si celebra il ritorno della natura dal sopore invernale e, proprio in questa occasione, certe tribù pagane usavano scambiarsi simboliche uova colorate sotto l’albero sacro del villaggio(5).
Perché allora non ipotizzare un albero sacro ad Eostre, venerato e amato dalla popolazione locale, che i missionari hanno cristianizzato senza difficoltà, semplicemente scambiando il nome della dea pagana con quello della Vergine?
Le analogie tra i due culti sembrano evidenti.
Il nome "Ostara", rimasto nella dizione ligure/italica, deriverebbe direttamente dalla denominazione celta "Ostur Monath", per indicare proprio l’equinozio di primavera. Se il bosco in questione aveva un valore di rilievo nella celebrazione di Ostara, si può immaginare facilmente come il nome stesso della festività si sia tramutato, poco a poco, in toponimo. E, altrettanto facilmente si può immaginare come, quasi duemila anni dopo, i monaci abbiano intitolato la chiesa appena ricostruita al Salvatore di Ortara, nome forse già distorto ma, per loro, semplice toponimo locale.
Non è neppure da escludere, inoltre, che la chiesa sia stata edificata sopra un precedente tempio dedicato alla dea, demolito e riutilizzato come materiale da costruzione, come era costume dei missionari dell’epoca. Azione, peraltro, già compiuta in numerosi siti limitrofi: monte Dragnone, anch’esso legato ad un culto arboreo, per fare un esempio.
L’aura di sacralità che aleggia intorno al sito deve essere, quindi, molto antica e resa assai potente dalla sedimentazione religiosa di più ere, tanto che ancora oggi gli anziani ripaltesi ne parlano con grande rispetto e ammirazione. Sopravvive ancora, tra costoro, la convinzione che la vasca battesimale della parrocchiale di San Nicolò provenga proprio dalla distrutta chiesa di Ortara e che ci sia stata, in merito, una disputa con gli abitanti del vicino borgo di Cassana, siccome anche loro rivendicavano la proprietà delle suppellettili sacre. Si sarebbe infine deciso, per placare gli animi, di lasciar decidere direttamente alla Provvidenza: la vasca sarebbe stata caricata sopra un carro trainato da due buoi e, dopo averli spronati, sarebbero stati loro a scegliere la via da percorrere, decidendo chi si sarebbe aggiudicato l’ambito oggetto, ed essi scelsero la via di Ripalta. La cosa curiosa è che anche a Cassana narrano la medesima storia ma la risolvono a loro favore, sostenendo che la famosa vasca battesimale di Ortara sia quella che si trova nella loro chiesa, la parrocchiale di San Michele. Come nota giustamente il Formentini(7), questa disputa farebbe pensare che il territorio appartenuto un tempo alla chiesa di Ortara potrebbe aver compreso, oltre Ripalta e Boccapignone, anche Cassana, controllando così una porzione notevole della viabilità, sia in direzione EO che NS.
Da questo punto di vista, sarebbe possibile riconsiderare completamente la protostoria di Ripalta e delle sue montagne, anche in relazione ai siti analoghi poco distanti. Può essere, infatti, che il culto del castagno di Ripalta interessasse solo una piccola comunità chiusa o, invece - e più verosimilmente, data la posizione su una arteria viaria importante -, fosse meta di pellegrinaggio anche per le genti delle valli vicine.
Attualmente, come si è detto, la chiesa non esiste più e non è chiara neppure l’esatta ubicazione, perduta anche nella memoria degli abitanti, data la radicale trasformazione dell’ambiente nell’ultimo secolo.
Il sentiero, però, esiste ancora, allargato dai boscaioli per consentire il passaggio di fuoristrada e trattori. Le condizioni del terreno, tuttavia, hanno scoraggiato i tentativi di scavo archeologico ipotizzati alcuni anni fa e, per ora, tutto giace indisturbato da qualche parte, sotto il suolo.

NOTE:
(1) AA.VV., Gli scavi nel castello di Celasco - relazione preliminare sulle campagne 1996/1999, Firenze, Edizioni all’Insegna del Giglio, 2003
(2) F. M. Bussetti, G. Costa Maura, I Santuari della Liguria, Genova, AGIS, 1980; M. Gamba, Apparizioni Mariane, Udine, Edizioni Segno, 1999
(3) I. Pucci, Culti naturalistici della Liguria Antica, La Spezia, Luna Editore, 1997
(4) Una leggenda celta narra di come, un giorno, la dea Eostre abbia tramutato un uccello in lepre e, per ripagargli la perdita delle ali, gli abbia donato una grande velocità. La lepre, però, una volta all’anno, in primavera, ha il diritto di portare ancora le uova come quando era un volatile. (Riccardo Taraglio, Il vischio e la quercia, Torino, Edizioni l’Età dell’Acquario, 2001)
(5) J. Frazer, Il ramo d’oro, Roma, Newton & Compton, 2003; A. Romanazzi, La Dea Madre e il culto Betilico, Bari, Levante Editore, 2003
(6) Ubaldo Formentini, Guida storica etnografica della Val di Vara, Provincia di La Spezia, 1977


Il borgo di Ripalta. Sullo sfondo, il borgo di L'Ago e la vetta del Bracco



Considerazioni
Per il nostro viaggio alla riscoperta degli antichi luoghi di culto liguri, si è scelto come punto di partenza il borgo di Ripalta, minuscola frazione isolata e pressochè sconosciuta. Tale scelta è stata dettata dalla volontà di fare intendere al lettore che il nostro passato non è sempre lontano, nelle scoperte più importanti e famose ma anche, soprattutto, circostante a noi, proprio dietro l’angolo, composto da tante micro-scoperte.
La storia locale non deve essere discriminata in quanto anch’essa ha apportato, negli ultimi anni, ottimi e importanti contributi alla storia globale.Le varie storie locali si intrecciano fino a formare una complessa tela che ci dà una visione d’insieme e ci permette, così, di inserirla nel quadro storico generale.
Per quel che riguarda la storia della Madonna del Castagno di Ortara, lo schema narrativo della leggenda è quello classico, che incontreremo sovente in questa ricerca e che costituisce quasi un topos, per quel che riguarda l’area tosco-ligure. In molti luoghi, infatti, ricorre la narrazione della fondazione di una chiesa dopo il ritrovamento, in un certo sito, spesso al di fuori del centro abitato, nei boschi o nelle campagne, di un oggetto raffigurante la Madonna (dipinto, scultura o suppellettile sacra). Spesso di racconta che tale oggetto, dopo essere stato rimosso dal luogo di rinvenimento e trasferito nella sede di culto della comunità (chiesa paesana, oratorio o canonica), scompaia e venga in seguito ritrovato nel luogo originario. Questo fatto viene interpretato dai paesani come il soprannaturale invito della Vergine ad erigere un santuario in suo onore, cosa che viene presto fatta.
Due sono le interpretazioni che possiamo dare a tali leggende. La prima, più semplicistica (ma non per questo meno verosimile), è che esse siano state inventate, a partire da un comune modello narrativo, per spiegare l’esistenza di un santuario, essendosi quasi totalmente perduta la motivazione storica di sovrapposizione ad un precedente sito sacro pagano; alternativamente, invece, è possibile ipotizzare che qualcosa sia stato veramente rinvenuto nel sito della presunta apparizione: statue-stele, betili, pietre scolpite o tombe a cassetta (un tempo credute oggetti di culto pagano), che avrebbero indotto la curia locale a costruirvi sopra una chiesa per cristianizzare il sito. Questa ipotesi sottintende che le leggende siano quindi state inventate ad hoc, per giustificare agli occhi dei villici l’erezione del sacrario.
In realtà è probabile che entrambe le ipotesi siano in qualche modo verosimili e che, a seconda dei casi, si sia verificato l’uno o l’altro comportamento.

giovedì 21 ottobre 2010

Notizie: Addio a Tiziano Mannoni

E' scomparso pochi giorni fa, inaspettatamente, il grande archeologo genovese Tiziano Mannoni

http://www.viveregenova.comune.genova.it/content/addio-tiziano-mannoni-archeologo-dellarchitettura


LCSSCL condivide il cordoglio dell'intero mondo archeologico per la perdita di uno dei suoi capostipiti, i cui contributi alla conoscenza del passato resteranno pietre miliari a cui noi e le generazioni future dovremo sempre rendere tributo.

lunedì 18 ottobre 2010

Risorse per Google Earth(TM)

Pubblichiamo qui, per il pubblico utilizzo, alcune risorse utilizzabili con il software geografico Google Earth, che potranno trovare applicazione nel campo della ricerca storica, archeologica ed etnografica.

- LaSpeziaMilitare.kml: localizzazione delle postazioni militari chiave delle guerre mondiali e del periodo immediatamente precedente

- PuntiFiducialiMS.kml: localizzazione completa dei Punti Fiduciali dell'intera provincia di Massa Carrara. Particolarmente utili nella creazione di itinerari e nella localizzazione di siti al di fuori dei centri urbani.

- ToponimiFivizzano.kml: localizzazione di molti microtoponimi del Comune di Fivizzano (SIRA ARPAT Toscana)

- ToponimiBagnone.kml: localizzazione di molti microtoponimi del Comune di Bagnone (SIRA ARPAT Toscana)

- ToponimiZeri.kml: localizzazione di molti microtoponimi del Comune di Zeri (SIRA ARPAT Toscana)

Molti altri microtoponimi della Lunigiana si trovano presso il database di SIRA, all'indirizzo http://sira.arpat.toscana.it/sira/Toponomastica/COMUNI.htm

Aggiungiamo, inoltre, i Punti Fiduciari della Provincia di La Spezia, purtroppo non in formato .kml, leggibile direttamente da Google Earth, ma in formato .taf, da cui sarà comunque possibile copiare le coordinate dei vari punti e traferirle agevolmente su Google Earth. Scarica SPEZIA.taf


Cliccando sui link, si aprirà direttamente il relativo file con estensione .kml che, automaticamente, lancerà il programma Google Earth™. Al momento della chiusura del programma, tramite l'apposita finestra di dialogo, l'utente potrà scegliere se salvare o meno il file tra i suoi "luoghi personali".
Per scaricare gratuitamente Google Earth™, visitare il sito http://earth.google.it/

mercoledì 13 ottobre 2010

Luoghi da salvare: i villaggi d'alpeggio dello Zerasco

I villaggi d'alpeggio dello Zerasco


Il territorio di Zeri, per via della sua posizione geografica che lo ha isolato per secoli dal resto della Lunigiana, oltre che per l’assenza di monumenti di spicco come castelli, torri o borghi fortificati, è da sempre uno dei meno conosciuti dai turisti. Si tratta di un territorio assolutamente montuoso, spesso impervio, la cui popolazione ha sempre lavorato sodo per ottenere il sostentamento dalla difficoltosa coltivazione del terreno e, soprattutto, dalla pastorizia. È quindi una zona ricca di testimonianze etnografiche e della cultura materiale.
Proprio all’interno di questo contesto possiamo collocare la necessità di salvaguardare tre interessanti località dell’Appennino: Formentara, Porcilecchio e Gurfuglieta. Tali toponimi designano tre antichi insediamenti umani, situati intorno ai 900 metri s.l.m., sulle pendici del monte Spiaggi (1554 m), a poca distanza dal Passo dei Due Santi e dalla famigerata località sciistica di Zum Zeri.
Si tratta di villaggi d’alpeggio, ovvero insediamenti edificati da genti dedite alla pastorizia, popolati solo durante la stagione estiva, quando le greggi venivano condotte verso i freschi pascoli montani, dopo essersi nutrite per l’intero inverno dei prati situati più in basso, presso i borghi.
A primavera inoltrata, quando il gelo ormai era terminato, gli uomini (adulti e adolescenti) dei borghi di Noce e Patigno, si incamminavano su per gli irti sentieri dell’alpe con le loro bestie (pecore e capre), con l’intenzione di passarvi tutta l’estate, tornando dalle famiglie solo al principio dell’autunno. Questa tradizionale transumanza ha reso necessaria l’edificazione di ripari solidi e affidabili, in cui ricoverare le greggi durante la notte o in caso di maltempo ed in cui poter collocare un giaciglio e le pochissime, indispensabili, suppellettili per la vita quotidiana.
Verosimilmente, dato che tale tradizione si protrasse, con tutta probabilità, a partire dalla protostoria, in antichità i ripari erano costruiti con il legname dei numerosi boschi e, data la poca resistenza alle inclemenze dell’inverno, dovevano essere ricostruiti ogni anno. È anche possibile che questo tipo di accampamento, almeno inizialmente, non fosse stabile, ma fosse approntato ogni anno in zone diverse.
In seguito, con l’affinarsi delle tecniche costruttive e con l’aumentare delle famiglie, sarebbero stati edificati i villaggi in pietra, i cui vantaggi sono evidenti. Ogni famiglia aveva un suo possedimento, costituito da una “cassina”, cioè da una casupola di sasso ed eventuali annessi (un pozzo, un forno, una stalla, una legnaia ecc.), unitamente ad un appezzamento di terreno a pascolo.
Sebbene i primi documenti scritti che ci rimangono risalgano agli inizi del ’500 (qualsiasi documento precedente è andato bruciato nel rogo di Pontremoli del 1495), la nascita dei villaggi potrebbe situarsi forse già nel basso medioevo. Invece, l’impianto attuale dei villaggi potrebbe essere datato grossolanamente al XVII o XVIII secolo, con molti interventi rilevanti effettuati nel XIX secolo.
L’architettura di questi insediamenti ci può dare un’idea dell’abilità costruttiva delle popolazioni contadine di quei tempi. Nei villaggi, infatti, si possono notare mastodontici portali, angoli ancora a prova di filo a piombo, eleganti infissi in pietra, muri di contenimento a secco, pozzi coperti, forni a legna, scale e mulattiere lastricate. A Formentara, inoltre, si nota il ricco sistema idrico, costituito da diverse fontane (ne abbiamo individuate almeno sette) dislocate in vari punti dell’insediamento, che canalizzavano e rendevano comodamente fruibile l’acqua di un ruscello. Sempre a Formentara, il maggiore dei tre villaggi, si trova addirittura un oratorio, dedicato a San Bartolomeo e costruito, secondo l’iscrizione murata in facciata, nel 1776.
Formentara è costituito da una trentina di edifici circa, separati da carugi e scolatoi delle acque piovane e, nella parte alta, si trovano alcune aie lastricate di arenaria, che fungevano da “piazza”, un luogo dove si svolgevano tutte le attività sociali e collettive, tra cui la più attesa era la festa estiva di San Bartolomeo, occasione in cui le mogli e le ragazze dei borghi salivano all’alpeggio con ogni genere di leccornie, si mangiava e si ballava davanti al fuoco per tutta la notte. Porcilecchio e Gurfuglieta, invece, sono costituiti da cascine sparse e non presentano una rete viaria interna, come a Formentara. Sono presenti comunque numerosi pozzi, mangiatoie per il bestiame, sentieri lastricati e portali monolitici. Esistono, inoltre, altri agglomerati minori, come Collaracci, poco distante da Porcilecchio, ed altri che non sono nemmeno segnati sulle carte. Infine, segnaliamo la presenza del casale denominato "Piagnara", toponimo legato spesso alla cava della pietra utilizzata per fare le piagne, cioè i tipici lastroni di arenaria che coprivano i tetti delle cascine. Con tutta probabilità, le piagne di Formentara e degli insediamenti limitrofi provengono da lì.
I villaggi sono caduti progressivamente in disuso a partire dagli anni ‘50, quando il boom economico e l’espandersi delle città ha portato i giovani ad abbandonare i borghi nativi e le loro tradizioni, per collocarsi nelle fabbriche e negli impieghi richiesti da una economia capitalista tecnocratica in rapida espansione.
Attualmente, gli insediamenti versano in condizioni disastrose. Gurfuglieta è prossima all’annichilimento totale, restando in piedi solo pochi muri sbrecciati, qualche portale e qualche angolo di cascina più robusto di altri. Porcilecchio si trova in condizioni leggermente migliori ma la selva lo sta inghiottendo completamente e i muri sono divelti dalle poderose radici degli alberi. Formentara è sicuramente il villaggio meglio conservato, tuttavia la maggioranza delle costruzioni è pericolante o prossima al crollo. I tetti sono sfondati, i pavimenti in legno completamente marciti, i muri presentano gravi “spanciature” e crepe strutturali. Solo gli infissi in pietra delle finestre e delle porte sono rimasti più o meno integri, unitamente a qualche angolo che ancora si presenta dritto e sano. L’acqua entra dappertutto e il muschio, le felci e le radici degli alberi si fanno largo tra le pietre e le piagne. I tronchi usati per costruire i tetti, nonostante abbiano resistito a diversi decenni di neve ed incurie, stanno marcendo e crollando sotto il peso delle coperture in pietra.
Un autentico tesoro della cultura materiale si sta sgretolando sotto i nostri occhi, ed è necessario intervenire repentinamente se si vuole salvarlo. Già in passato ci sono state proposte di rivalutazione, tuttavia nulla è stato portato a compimento.
Naturalmente un intervento di recupero, anche solo strutturale, a questo punto necessiterebbe di una spesa consistente, senza contare la realizzazione di pannelli informativi, spazi museali o espositivi e la messa in sicurezza e la manutenzione della strada comunale.
La migliore destinazione d’uso che si possa pensare per questi siti è quella di “ecomuseo” o “museo all’aperto”, uno spazio in cui ricreare e illustrare la vita pastorale e le attività ad essa legate, in primis la transumanza, poi l’arte casearia, i mestieri, la medicina popolare e i riti, l’architettura e la gastronomia.
Ma tutto ciò è secondario, è un sogno che non potrà essere realizzato se prima non si interviene per salvaguardare ciò che ancora si regge in piedi. La spesa per il risanamento sarà sicuramente elevata, ma vogliamo per questo lasciare andare in rovina un patrimonio della nostra storia e della nostra cultura? Dov’è la Comunità Europea? Dove sono la Soprintendenza per i Beni Culturali e gli Enti pubblici? Un paio di cartelli, uno all’ingresso del villaggio e l’altro nei pressi dell’oratorio sono già una buona cosa, ma non bastano. Infatti, tra cinque anni i cartelli rimarranno, ma indicheranno soltanto un cumulo di macerie che franano a valle.

Cassina con aia lastricata (Formentara)

Tetto in piagne ben conservato (Formentara)

Formentara, paesaggio

Stradello e case alla Formentara

Oratorio di San Bartolomeo, 1776 (Formentara)

Cassina isolata (Formentara)

Formentara, il villaggio immerso nel bosco


Per scaricare le coordinate Google Earth™, clicca qui
Coordinate Google Earth™
Per permettere agli utenti del sito di localizzare con facilità e precisione i luoghi descritti nei nostri testi, mettiamo a disposizione le coordinate satellitari.
Queste coordinate vanno utilizzate all'interno del noto software Google Earth™, che permette di visualizzare foto satellitari di tutto il pianeta.
Siamo convinti che tale software, completamente gratuito, sia un eccezionale strumento di localizzazione, in quanto fornisce anche mappe stradali, nomi di luoghi e contenuti multimediali di ogni genere.

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Per scaricare gratuitamente Google Earth™, visitare il sito http://earth.google.it/

Recensione: "La chiave del Brebo"

Giorgio Bassoli e Giuseppe Danilo Vallarino, La chiave del Brebo, Genova, Editrice Libropiù, 2008

    Sulla scia di un certo numero di pubblicazioni dedicate alla nostalgica memoria delle nostre campagne, delle tradizioni materiali e del folklore, gli Autori ci aprono le porte di un entroterra genovese che sembra essere estraneo allo scorrere del tempo così come lo si conosce in città. Il Brebo è una piccola valle alle spalle dei monti, una realtà parallela, esostorica, senza contatti con il mondo moderno, di cui gli Autori ci mostrano le delicate e toccanti immagini: un universo fatto di dettagli, di pietre e di foglie, di stradine, di finestre, di profumi agresti e di sole.
    Un libro fatto anche di poesia e di parole, a volte di commozione e a volte di silenzioso dolore per un mondo che c’è e non c’è, che si fa ogni giorno più sottile. Ci emoziona e ci fa sorridere con i colori delle montagne e con i volti familiari degli anziani, ma allo stesso tempo ci pone di fronte un problema e, con esso, una responsabilità. Il mondo del Brebo, che si apre solo con l’apposita magica chiave, cioè con una nuova disposizione mentale ed un rinnovato interesse per riscoprirlo, è un mondo fragile, in bilico tra la realtà e l’oblio, che non può sopravvivere solo attraverso i ricordi ma che ha bisogno di nuova linfa vitale, di gente che lo veda e che voglia farlo rivivere. E forse proprio oggi c’è la possibilità che questo avvenga, che chi fugge dalle città rombanti in cerca di un po’ di pace raccolga le briciole una ad una fino davanti alla porta del Brebo e che sappia trovare, tra tante, la chiave per entrarci.
    Un libro tutto da gustare, da sfogliare pian piano, da osservare. Un ottimo lavoro di memoria e d’arte poetica.


Recensione: "Ciappe, beudi e cicogne"

Anna Maria Castellano, Ciappe, beudi e cicogne,
Genova, De Ferrari, 2010

    Da qualche anno a questa parte, in Liguria si sta risvegliando un sincero interesse per il paesaggio rurale e per la sua necessaria conservazione, che richiederebbe una grande quantità di interventi importanti, svolti con tempestività. Naturalmente, i fondi a disposizione per la salvaguardia delle opere rurali, che in molte zone della Liguria si identificano direttamente con il paesaggio (per cui si parla di “paesaggio umano”), sono quel che sono e le politiche regionali e nazionali sono focalizzate su altri obiettivi, magari più remunerativi, quali metropolitane, giardini sull’acqua e infrastrutture di dubbia utilità, la cui costruzione impegnerà manodopera e mezzi per parecchi anni. Fortunatamente, complice l’interesse dei giovani, che stanno invertendo in parte il trend della fuga dalle campagne iniziato nel primo dopoguerra, sempre più persone ed istituzioni si dedicano alla salvaguardia, se non materiale almeno documentaria, delle opere rurali.
    Proprio in questo contesto si inserisce Anna Maria Castellano, ambientalista e attenta osservatrice del paesaggio naturale e antropico che, dopo aver esplorato a fondo il Tigullio, ne documenta le impressionanti opere d’arte “senza autore”, che costituiscono il patrimonio rurale e storico della regione e che sono abbandonate all’usura degli elementi o, peggio, alle ristrutturazioni irrazionali e senza gusto né rispetto.
    Con una mirabile affabilità quasi familiare, insieme ad una brillante competenza, l’Autrice ci guida indietro nel tempo, in un mondo di valori semplici, di ingegno e di forza, che testimoniano non solo le comprovate attitudini storiche della gens ligure, ma soprattutto l’esistenza di un’umanità diversa da quella che conosciamo, un’umanità in cui l’arguzia della mente e la potenza dei muscoli erano in grado di edificare costruzioni grandiose che, senza bisogno di armature o cementificazioni, sono sopravvissute più o meno intatte a quasi un secolo di degrado.
    L’ampio corredo fotografico a cura della giovane Marta Zunino riprende con occhio vigile e commosso sia le insospettabili bellezze dei particolari architettonici e agricoli (uno su tutti, la splendida grondaia in legno, fotografata a Campo di Ne), sia la sconcertante mancanza di rispetto delle moderne ristrutturazioni oppure l’abbandono totale e l’assoluto oblio in cui vengono lasciati edifici, fasce e sentieri. Simboli di questo mondo in pericolo di estinzione sono proprio i particolari architettonici peculiari di questa zona, che danno titolo all’opera: le ciappe, i beudi e le cicogne (per scoprire cosa sono, vi consigliamo di acquistare il libro!)
    Speriamo presto di poter vedere altri volumi di questo tipo, magari della stessa Autrice e, soprattutto, speriamo che queste iniziative scuotano un pochino gli animi più sensibili e che si possa presto passare dalle parole ai fatti.

lunedì 11 ottobre 2010

Recensione: "La Civetta e la Luna"

Orazio Olivieri, La Civetta e la Luna, Aulla, Mori Editore, 2004

Le Statue Stele della Val di Magra sono, da quasi due secoli, sempre sotto i riflettori e oggetto di continuo interesse, sia da parte degli addetti ai lavori sia da parte dei profani. Ogni nuovo ritrovamento è vissuto come un evento e, in quanto tale, riceve una buona pubblicità mediatica, che sempre più alimenta la curiosità delle folle e, ogni tanto, anche di qualche studioso!
    Diciamo così perché, in effetti, è proprio dalla parte degli addetti ai lavori che viene uno sconcertante silenzio che si prolunga ormai da qualche anno e, oltre alle fantasiose speculazioni popolari che si possono contare numerose soprattutto su blog e siti internet, sembra che ci sia una stasi totale nell’interpretazione del significato delle statue stele. L’ultimo contributo veramente significativo, infatti, risale al 1990, quando fu pubblicato un interessantissimo compendio in due volumi di Romolo Formentini, il quale vi esponeva alcune sue teorie, risultato di anni di ricerche in questo campo, che erano letteralmente pece greca per il cauto e incerto panorama accademico di allora. Il risultato infatti fu che, nonostante presentazioni ufficiali a livello europeo, il     Formentini ricevette soltanto una debole solidarietà da qualche professore dell’est Europa, con il quale egli aveva collaborato. Per il resto solo silenzio e il timore che questo silenzio sarebbe durato in eterno.
    Fortunatamente, invece, Mori Editore di Aulla ha pubblicato un originale studio di Orazio Olivieri, intitolato La Civetta e la Luna, in cui l’autore espone una sua interpretazione al fenomeno delle statue stele, inserendole come d’obbligo nell’ampio panorama della statuaria votiva europea e trovando significativi collegamenti che rinforzano la sua tesi.
    Con grande umiltà e con capacità narrativa, l’autore ci trasporta attraverso l’Antica Europa, attraverso i culti incredibilmente simili tra loro di una dea-civetta primitiva, che daranno luogo in seguito a ben più note divinità mediterranee, quali Atena/Minerva, Tanit, Astarte, Ishtar/Innanna. Le belle e competenti illustrazioni a tutta pagina di Maria Pia Binazzi ci permettono di verificare, di toccare con mano le somiglianze e le differenze tra le statue stele europee, attraverso un viaggio che dura più di tre millenni, le cui linee guida sono sempre la civetta e la luna.
    La civetta e la luna, collegate tra loro da un legame magico oltre che naturale (e, a volte, magico in quanto naturale), sono simbologie che troviamo oscuramente accennate anche sulle statue stele, nei tratti stilizzati dei volti detti appunto “a civetta” delle stele di gruppo A e nella forma a mezzaluna delle stele gruppo B, quelle volgarmente dette “a cappello di carabiniere”.
    Può essere quindi che un antichissimo culto della civetta e della luna sia approdato anche in Lunigiana, dopo aver attraversato il Mediterraneo ed aver affascinato molti popoli? Orazio Olivieri non pretende di dare certezze che, ad oggi, nessuno potrebbe dare, ma si accontenta di proporre un’ipotesi, ben conscio dell’impossibilità attuale di dimostrarla anche se, non per questo, meno sicuro della sua bontà. L’interpretazione di Olivieri, infatti, appare affascinantemente verosimile e, cosa importante, sembra integrarsi bene con le ipotesi, seppur differenti, che il Formentini formulò ormai vent’anni fa. Forse, come si suol dire, la verità sta nel mezzo.

Luoghi da salvare: Arma delle Mànie

La Grotta dell'Arma, sull'Altopiano delle Manie (Savona)

lettera aperta al Direttore de il Secolo XIX
inviata il giorno 10/05/2010
  
  Egregio Direttore,
    Le scrivo per segnalare a Lei e ai Liguri tutti, unitamente alle Istituzioni, la situazione di emergenza in cui si trova un sito di fondamentale interesse storico e culturale per la nostra Regione.
    Perché uno dei tesori della Liguria è in pericolo.
    Un sito di enorme interesse, dal punto di vista naturalistico-geologico, paesaggistico, archeologico e della cultura materiale, che dovrebbe essere conservato e reso agevole alla pubblica fruizione, verte in grave stato di abbandono e di degrado. E non si tratta di un luogo sconosciuto, disperso nei boschi e difficilmente raggiungibile, bensì della nota Grotta dell’Arma, sull’altopiano delle Manie, nell’entroterra finalese (SV).
    Si tratta di un ampio riparo di roccia calcarea e tufacea, situato a circa 250 metri s.l.m. e immerso in una lussureggiante vegetazione mediterranea. La grotta, che fino agli anni ‘50 veniva utilizzata dai contadini locali come riparo per pecore e capre, è stata oggetto di studio e di scavo a partire dal 1964, sotto la direzione della Soprintendenza Archeologica della Liguria. Sono stati rinvenuti frammenti di utensileria litica e tracce di focolari, oltre che frammenti ossei animali, in strati risalenti al Paleolitico Medio e Superiore, che fanno pensare che l’Arma fosse utilizzata solo come riparo temporaneo, probabilmente legato alla transumanza delle greggi.
    Tutti i reperti venuti alla luce sono stati collocati nelle teche del Museo Archeologico di Villa Durazzo-Pallavicini a Genova, oppure nel Museo Archeologico del Finale, a Finale Ligure, e gli scavi della Soprintendenza risultano ancora aperti.
    La Grotta dell’Arma, comunque, non ospita solo l’area di scavo archeologico, ma anche alcuni interessantissimi reperti della cultura materiale della zona. Vi si trovano infatti tre frantoi a sangue per la lavorazione delle olive, meravigliosamente realizzati in pietra locale, completi di macine e torchi, risalenti con tutta probabilità al XIX secolo (di cui uno all’interno dell’unica camera della grotta). Inoltre si possono osservare dei muri a secco realizzati in pietra tufacea, con tanto di portali di fattura popolare ma pregevole, che servivano a delimitare i vari locali adibiti alla produzione dell’olio e successivamente usati per il ricovero di ovini e caprini. Reperti minori ma non meno affascinanti sono alcuni carri in legno, probabilmente usati per il trasporto di olive e olio e una struttura in legno utile forse alla ferratura degli asini o cavalli che dovevano trainarli.
    Purtroppo, allo stato attuale, tutte le strutture e i manufatti che si trovano all’interno della grotta sono in stato di conservazione pessimo, potenzialmente critico, a causa di una totale incuria che le espone all’azione degli agenti atmosferici e al vandalismo. I tre frantoi, per quanto completi, sono tutti rotti o smontati e i pezzi sparsi per ogni dove, alcuni addirittura riutilizzati in loco come materiale da costruzione; dei tre o quattro torchi che dovevano esistere un tempo, solo uno sopravvive intatto, mentre degli altri rimane la base in pietra, rotta o divelta, e alcune parti lignee, buttate in qualche angolo o riutilizzate; i muri a secco sono in parte franati o pericolanti e i portali non sono messi in sicurezza, anzi, uno di questi è puntellato da una parte con pali di legno appartenenti ad uno dei tre frantoi; fili elettrici pendono da ogni dove, perfino dalla suggestiva apertura naturale che si trova al centro della volta dell’Arma, alcune prese di corrente “sigillate” con del semplice nastro adesivo giacciono pericolosamente in antri microcarsici dove gocciola acqua; la breve rampa di accesso all’unica camera della grotta è stata rielaborata in malo modo, facendo uso di materiali e di tecniche assolutamente non consone al contesto storico e naturale, mentre la camera stessa è completamente priva di illuminazione, pur essendo aperta e accessibile, e il frantoio che si trova all’interno è rovinato e pieno di rifiuti cartacei e plastici; in ultimo, la recinzione di metallo che protegge lo scavo archeologico è brutta, vecchia, ed è stata scelta e installata con criteri poco rispettosi dell’ambiente circostante. Senza contare che attualmente non serve comunque a nulla, poiché nel muro sottostante si è aperta una breccia talmente ampia da permettere il passaggio di una persona adulta.
    A tutto ciò dobbiamo aggiungere la totale mancanza di pannelli didattici in loco e addirittura la più assoluta assenza di segnaletica stradale dedicata! E ricordiamo che l’accessibilità automobilistica è ottima, con una strada larga e sana fino alla deviazione, a circa 2 km dalla grotta, punto in cui la superficie carrozzabile si restringe un po’ e diventa leggermente sconnessa in alcuni tratti. Eppure, né a Finale, né a Noli o nei paesi limitrofi si trova un cartello che segnali la Grotta dell’Arma!
    Se non ci saranno tempestivi interventi di riqualificazione, anche minimi, i danni potrebbero diventare irreversibili e impedire così alla popolazione autoctona ed ai turisti di godere di una attrattiva davvero unica, in cui si fondono alla perfezione natura e lavoro umano.
    Se i Comuni e gli Enti locali non possono permettersi di attingere alle proprie risorse finanziarie per la riqualificazione della Grotta dell’Arma, sarà necessario creare un’associazione consortile in gestione mista pubblica/privata per raccogliere i fondi necessari. Inoltre, possono e devono essere richiesti finanziamenti (anche a fondo perduto) alla Comunità Europea, il cui interesse è, tra gli altri, quello di tutelare e valorizzare il patrimonio culturale degli Stati membri.
    Un “Consorzio per la Riqualificazione e Manutenzione della Grotta dell’Arma” potrebbe essere semplicemente costituito dal Comune di Finale Ligure, dalla Comunità Montana a cui compete il territorio in oggetto, dalla Provincia di Savona, dalla Regione Liguria, dalla Soprintendenza ai Beni Culturali della Liguria e da tutte quelle persone, fisiche o giuridiche, che volessero contribuire alla raccolta fondi. Si dovrebbero interpellare per primi gli enti turistici e le aziende locali che operano in tale settore, unitamente alle banche a e tutte quelle associazioni o società che hanno come obiettivo la promozione e la salvaguardia del patrimonio culturale, naturale e storico/artistico.
Un piano di riqualificazione completa si potrebbe riassumere nei seguenti punti:
- sistemazione e messa in sicurezza delle opere murarie
- messa in sicurezza delle aperture naturali mediante apposite ringhiere
- creazione di un impianto di illuminazione sicuro e adeguato
- rimozione e/o sostituzione dei materiali antiestetici e/o potenzialmente dannosi
- recupero e valorizzazione delle opere inerenti alla cultura materiale
- creazione ed installazione pannelli didattici ed eventuale arredo urbano
- ripristino segnaletica stradale dedicata
    La spesa verosimilmente necessaria per la realizzazione di questi interventi non si può considerare eccessiva, tenendo conto anche del ritorno economico dato dall’afflusso turistico che la riqualificazione dovrebbe richiamare.
    Naturalmente, ci sarebbero le minime spese di manutenzione e di controllo, che potrebbero comunque essere azzerate se si ricorresse all’opera gratuita di una o più delle numerose associazioni di volontariato, il cui zelante impegno sociale è motivo di orgoglio nella nostra regione.
    Quello che comunque non può mancare da parte delle Istituzioni è l’interesse sincero che la situazione di incuria e degrado della Grotta dell’Arma sia risolta il più presto possibile e, quindi, che il sito torni ad essere pienamente fruibile da parte del pubblico e godibile in tutti i suoi numerosi e importanti aspetti.
    Ringraziandola per il suo tempo e sperando che questa lettera aperta sia pubblicata, anche solo parzialmente, sul quotidiano che Lei dirige, porgo i miei più distinti saluti.
Jonathan Ferroni (info@lcsscl.it)
Libero Centro di Studio e Scoperta della Civiltà Ligure

    P.S. La presente è stata inviata, per conoscenza, anche al Comune di Finale Ligure, alla Provincia di Savona e alla Regione Liguria, oltre che alla Comunità Montana Ponente Savonese e alla Soprintendenza ai Beni Archeologici per la Liguria.

Nota: ad oggi, 10 ottobre 2010, nessuno degli enti contattati ha avuto la cortesia di rispondere, neppure in modo formale.


La Grotta dell'Arma



Vista interna



Frantoio distrutto e muro sfondato


Frantoio in grave degrado

L'area di scavo archeologico

Un antico carro e la brutta recinzione


Degrado interno

Luoghi da salvare: le scalinate monumentali delle Cinque Terre

Le scalinate monumentali delle Cinque Terre

Sulla costa della Liguria di levante, tra Portovenere e Riomaggiore, esistono borghi dimenticati, paesaggi sconosciuti ed itinerari perduti. L'abbandono di queste terre da parte degli autoctoni, non più propensi alla dura vita agricola che questo paesaggio impone, ha determinato un rapido deterioramento di tutte quelle opere umane che caratterizzano, dai tempi della preistoria, questo particolarissimo ambiente.
I terrazzamenti, che una volta ricoprivano i versanti montuosi della costa quasi fino al livello del mare, oggi stanno franando irrimediabilmente oppure sono inghiottiti dalla vegetazione. Tra questi antichi muri a secco, dove i forti Liguri hanno coltivato vigne basse e ulivi fin da epoca immemore, si snodano i percorsi, altrettanto antichi, che collegavano i villaggi con i campi e con le “cantine”. Queste non sono altro che piccoli edifici di pietra vicino ai campi, dove si lavorava l’uva direttamente, senza doverla trasportare fino in paese, a vari chilometri di distanza.
Esistono veri e propri borghi fatti di queste cantine: Monesteroli, Schiara, Persico, Lemmen, Fossola e Tramonti.
Queste località, situate più in basso dei paesi, vicine al livello del mare, si raggiungono, oggi come mille anni fa, tramite ripidissime scalinate monumentali, costruite dall’uomo con enormi e pesanti pietre squadrate, trasportate a spalla e posate a mano su ripide coste, in bilico sull’abisso.
Recentemente è stato ipotizzato che la prima posa di queste scale, risalente alla preistoria, fosse di tipo megalitico.
Fino a qualche decina di anni fa le cantine costiere erano frequentate e, soprattutto durante la vendemmia, le antiche scale e i terrazzamenti delle Cinque Terre si animavano di gente (giovani e vecchi) che, ripetendo i gesti tramandatigli dai loro padri, portavano innanzi una tradizione millenaria.
Negli ultimi anni, invece, c’é stato un drastico abbandono dell’agricoltura locale, con conseguenti danni al patrimonio naturale e paesaggistico della costa. I terrazzamenti stanno scomparendo velocemente e le stesse scale megalitiche, senza la dovuta manutenzione ordinaria, si stanno inesorabilmente sgretolando e franando verso il mare.
Il Parco delle Cinque Terre è in allarme dal 2005 per questo motivo e sta cercando di promuovere il ritorno all'agricoltura locale e sta cercando fondi per riparare i terrazzamenti e le scalinate millenarie.

Scalinata verso Monesteroli
Scalinata quasi verticale
I vigneti delle Cinque Terre

Luoghi da salvare: l'antica Via dell'Acqua di Genova

L'antica via dell'Acqua (Genova)

La cosiddetta "Via dell'Acqua" è un meraviglioso percorso storico naturalistico genovese che, attraversando borghi dimenticati, mulini, fornaci, boschi e versanti montuosi, si snoda per oltre 50 km nel comune del capoluogo.
L'itinerario ricalca il corso dell'acquedotto principale della Genova antica, addirittura progettato in epoca romana, dalla località La Presa, in comune di Bargagli, fino al Porto Antico genovese, passando per Molassana e Staglieno, con passaggi suggestivi e sconosciuti.
Il sentiero è costituito da un lastricato regolare, sotto il quale si cela un canaletto - oggi secco- che, dalle montagne, trasportava l'acqua fino in centro città. Tutte le informazioni storiche e i dettagli sul percorso (seppur non aggiornati) si trovano nel libro "La Strada dell'Acqua" di P. Stringa, edito da SAGEP nel 1980, oppure nel bel sito:


Purtroppo, però, il percorso si trova in un grave stato di degrado, molte delle lastre che pavimentano il percorso sono rotte, incrinate o scomparse, lasciando sotto di sè pericolosi buchi in cui, tra l'altro, si accumula la sporcizia. Non ci sono cartelli né pannelli informativi che sarebbero, invece, assai utili e graditi durante il percorso. Inoltre, diversi tratti del sentiero sono franati o avvolti dalla vegetazione. E' un vero peccato che un itinerario di interesse storico così ampio (dall'epoca romana all'800) e di tale bellezza paesaggistica sia lasciato andare in rovina. Alcuni progetti per la riqualificazione sono stati annunciati ma, purtroppo, mai messi in atto.



Il tipico lastricato

Tratto dell'acquedotto presso Staglieno

Altri lastroni distrutti

Bocchetta per il troppo pieno

Un lastrone mancante

Ponte su un torrente