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mercoledì 9 febbraio 2011

Amphiorama 1869: la visione del mondo dalle montagne di La Spezia

di Jonathan Ferroni

La prima volta che lessi la parola “Amphiorama” avevo undici o dodici anni. Ne faceva cenno un libro che mio padre aveva acquistato a Monterosso, il quale mirava a fornire una affascinante panoramica sulla storia e preistoria della riviera spezzina, con un particolare riguardo alle leggende e agli eventi insoliti o irrisolti.
Quanto mi fece fantasticare, in quegli anni, ciò che avevo letto su quel libro!
Erano in realtà poche righe, in cui si narrava per sommi capi ciò che era successo ad un naturalista inglese, di nome Trafford, nel 1869, in una giornata primaverile e limpida, durante un’escursione sul Monte Castellana, celeberrima altura da cui si gode una splendida panoramica del Golfo di LaSpezia.
Stando al suo stesso racconto, Trafford avrebbe assistito ad un fenomeno ottico strabiliante, durato oltre cinque ore, durante le quali egli poté vedere una sorta di proiezione a distanza dell’intero pianeta, in una prospettiva assolutamente insolita.
Quale meraviglia per la fantasia, immaginare di vedere tutti i luoghi del mondo in tempo reale, dipanarsi uno dopo l’altro nel cielo terso di una splendida mattinata di sole sul Golfo!
È un’immagine mentale che è rimasta a lungo impressa nella mia memoria, composta in parte dal ricordo delle passeggiate sulle alture delle Cinque Terre e cristallizzata in un fotogramma dal noto dipinto di Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, che a mio parere rappresenta al meglio il senso di meraviglia e di attonito stupore di un uomo che si sente solo in cima al mondo. Non a caso, questo stesso dipinto è stato utilizzato anche per illustrare la copertina del libro di Bruno Della Rosa “Strane storie spezzine”, uno dei cui capitoli è dedicato appunto alla vicenda dell’Amphiorama.
Negli anni che seguirono, comparvero qua e là altri cenni a questa incredibile esperienza e al memoriale che Trafford ne redasse, un libercolo del 1874 intitolato appunto “Amphiorama, ou la vue du monde des montagnes de La Spezia”, stampato in Svizzera con una tiratura molto bassa.
L’irreperibilità dell’opera mi affascinò fin da subito per l’alone di mistero che creava, e ben presto nacque in me il desiderio di trovare il memoriale e di renderlo pubblico affinché ognuno potesse farsi da sé un’idea completa, senza doversi accontentare del giudizio di quei pochi che ne avevano parlato in passato.
Naturalmente, come tanti sogni e idee di fanciullezza, rimase chiuso per un po’ nel cassetto. Poi, constatando che l’argomento tornava ad essere discusso, soprattutto su internet, ed a riscuotere l’attenzione del pubblico, mi decisi a realizzare quell’antico progetto e mi misi alla paziente ricerca dei testi originali, per poterli tradurre e pubblicare.
Nel dicembre dell’anno appena trascorso, questo progetto è stato finalmente portato a termine e, seppure con diverse difficoltà, il testo è stato pubblicato ed è disponibile presso il sito www.lcsscl.it, presso L’Altare del Sole Editrice e ovviamente nelle maggiori librerie online.
Così come ogni idealizzazione si estingue a contatto con la realtà, anche l’idea che io mi ero fatto di quel libro è svanita non appena ho potuto leggerlo. L’esposizione dei fatti è piuttosto nebulosa, le spiegazioni non sono mai particolarmente chiare e l’intera esperienza potrebbe essere ugualmente una nuova scoperta scientifica o la fantasia di una mente indisciplinata.
Chiunque si sia fatto un’idea dell’Amphiorama ora può confrontare quell’idea con la realtà, nel bene e nel male. Di certo, il confronto delle diverse interpretazioni, che sarà interessante e stimolante, potrà aprire un vivace dibattito nel mondo scientifico, qualora l’interesse suscitato dal fenomeno sia abbastanza ampio.

La mia intenzione, nella pubblicazione di questo libro, è stata principalmente quella di rendere al pubblico spezzino un testo che riguarda, anche se indirettamente, la sua terra e la sua città. Un testo del passato che non è mai stato pubblicato prima in Italia e che, al di là di ogni giudizio di veridicità, rappresenta un fatto insolito, curioso e affascinante, da inserire negli archivi della memoria di questo territorio.
Sarà inoltre mia cura, oltre che gradito impegno, di inviare copie del volume ai principali organi di stampa liguri, nonché ad alcune selezionate società scientifiche, affinché coloro che sono “addetti ai lavori”, se interessati, possano tentare di confermare o confutare l’esposizione di Trafford, magari aggiungendo un nuovo caso ai misteri della scienza.
Nella cura della prima edizione del libro (e anche ora), mi sono voluto astenere dall’esprimere qualsivoglia giudizio, poiché non mi compete nessuna delle materie il cui àmbito sia coinvolto nell’esperienza dell’Amphiorama. Come è naturale, sorgeranno pareri discordanti e taluni proporranno teorie non condivisibili dal mondo scientifico, troppo fantasiose per essere considerate verosimili. Sarà necessario, in effetti, un approccio molto aperto e possibilistico, a coloro che vorranno tentare di interpretare il fenomeno, tuttavia si dovrà comunque cercare di andare all’essenza dei fatti, spogliandoli del loro involucro d’apparenza, e non di aggiungere fantasiose elucubrazioni a quelle già spontaneamente esistenti.
Per dirla con una antica parabola orientale: “Colui che porta acqua al fuoco vuole spegnerlo, mentre colui che vi porta legna vuole ancora veder danzare la fiamma!”





Antichi luoghi di culto in Liguria 9


Caranza: la Rennes-le-Château di Liguria

Rennes-le-Château, nome noto a chiunque si interessi di templarismo e di misteri, è una cittadina rurale della Languedoc, nel sud-ovest della Francia. Molte, troppe, leggende sono state costruite intorno a questo borgo, alcune volontariamente falsificate, altre dovute solo all’ignoranza e all’aberrazione romanzesca di qualche cantastorie internazionale.
Si è detto che qui si trova il Santo Graal, custodito da una società segreta, si è detto che Gesù, non morto sulla croce, dopo essersi sposato con Maddalena (!) sia emigrato qui per fondare una nuova dinastia, si è favoleggiato di un prete con inclinazioni esoteriche, insomma, si è distorto e infangato più che mai tutto ciò che di vero e storico ci può essere a Rennes.
In ogni caso, al di là di tutte le teorie fittizie, che non ci interessano, possiamo identificare un fatto storicamente avvenuto.
Nel 1891, durante i lavori di restauro alla chiesa di Santa Maddalena, è stato trovato qualcosa. Non si tratta di un tesoro, come vociferano i romanzieri, ma di alcuni reperti archeologici, eloquenti sul passato della chiesa. Il parroco Saunier ha dichiarato, a quanto sembra, di aver trovato un’antica tomba e altri oggetti coevi, di cui non si è mai precisata, però, la quantità e la tipologia. Comunque, alla fine dei restauri, pare proprio per volontà del parroco, sul portale d’accesso alla chiesa fu scolpita questa frase, tratta dalla Bibbia (Genesi, 28, 17): "Terribilis est locus iste. Haec domus dei est et porta coeli".
Ma che cosa accomuna l’ormai nota Rennes con l’anonimo borgo di Caranza, presso Varese Ligure, minuscolo insediamento ai piedi del Passo di Cento Croci?
Proprio quella frase. L’incisione "Terribilis est locus iste", infatti, si trova sull’architrave della porta sud (murata) della chiesa di San Lorenzo.
Questa chiesa è alquanto atipica. Imponente, alta, sembra non avere in comune granchè con il paese che, invece, è un esiguo agglomerato di casette rurali. La chiesa si presenta così dopo la ricostruzione del 1935, ricordata in una lapide, avvenuta 40 anni dopo la sua distruzione a causa di un violento terremoto, verso la fine del XIX secolo. A una trentina di metri a sud della chiesa (di fronte al portale di cui sopra) si trova il campanile, molto alto, di fattura popolare e appena restaurato.
Sembra strano trovare una chiesa così imponente in un borgo così piccolo, con la citazione biblica incisa su una porta secondaria murata e il campanile così tanto discosto. Ma andiamo con ordine.
Intanto, è necessario precisare che la scritta "Terribilis est locus iste", all’apparenza tanto inquietante, non compare solo a Rennes e a Caranza ma in molte altre chiese italiane ed europee. Si tratta di un passo della Genesi, una citazione del tutto plausibile in una chiesa. Tuttavia, tale passo narra un episodio che, per la nostra indagine, si rivela denso di significato. Riportiamo, per lasciare che lo scritto parli da sé, l’intero brano biblico:
 Questo episodio della vita di Giacobbe necessita di essere spiegato in quanto, a causa dell’accostamento confusionario di mitologie differenti, tipico dell’Antico Testamento, risulta alquanto complicato. Innanzitutto bisogna precisare che, nonostante la maggioranza degli esegeti biblici si ostini a non ammetterlo, Elohim non è un appellativo riferibile a Jahweh il quale costituisce, invece, il nome proprio di Dio, il famoso tetragrammaton ebraico. Elohim è il plurale di Eloah, che significa genericamente divinità ma che, nella tradizione ebraica, indica spesso angeli, creature divine e, saltuariamente, non divine. È chiaro che si tratta di un termine ancestrale dotato di diversi significati. In ogni caso - ed è ben chiaro nel passo sopra citato - Elohim è un’entità differente da Jahweh che, invece, è il "dio di Abrahamo".
"Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Harran. Capitò allora in un certo luogo, dove si fermò per pernottare, perché il sole era tramontato; prese una delle pietre, del santuario, se la pose come cuscino del suo capo e si coricò in quel santuario. E sognò di vedere una rampa che poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco: gli angeli di Elohim che salivano e discendevano per essa. Ed ecco che Jahweh stava sopra di lui, dicendogli: «Io Jahweh sono il Dio di Abrahamo, tuo padre e il Dio di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e al tuo seme. E il tuo seme sarà come la polvere della terra e ti spargerai a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E saranno benedette in te tutte le famiglie della terra e nel tuo seme. Ed ecco che io sono con te e ti custodirò dovunque andrai e poi ti farò ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò se prima non avrò fatto tutto quello che ho detto a te». Allora Giacobbe si svegliò dal suo sonno e disse: «Veramente c’è Jahweh in questo luogo ed io non lo sapevo!» Poi ebbe paura e disse: «Com’è terribile questo luogo! Questa è nientemeno che una Casa di Elohim e la porta dei Cieli». Si alzò Giacobbe alla mattina, prese la pietra che si era posta come cuscino del suo capo e la rizzò come stele sacra e versò olio sulla sua sommità. Allora chiamò quel luogo Bet-El (però prima il nome della città era Luz). E Giacobbe fece voto dicendo: «Se Elohim sarà con me e mi custodirà in questo viaggio che io sto facendo e mi darà pane per mangiare e vesti per vestire, e se ritornerò in pace nella terra di mio padre, allora Jahweh mi sarà come Elohim. E questa pietra che io ho eretto come una stele sacra sarà una casa di Elohim e di tutto quello che mi darai io ti offrirò certamente la libagione»."(1)
Dunque vediamo Giacobbe che, partito dalla città di Bersabea in cui si trovava, si dirige ad Harran, città della Mesopotamia che ospitava un grande centro religioso con relativa ziqqurat. Tuttavia, scesa la sera sul suo cammino, Giacobbe riposa in un "certo luogo" che è un santuario, utilizzando una pietra come cuscino. Il suo sogno divinatorio è, in realtà, una sorta di incubazione, pratica frequente nell’antichità, che consisteva nell’addormentarsi in un tempio o altro luogo sacro per entrare in contatto con la divinità locale. Tale rito era consueto già in Grecia e in Egitto, oltre che presso alcuni popoli orientali. Durante l’incubazione, Giacobbe incontra Jahweh, dio di suo padre (ma, evidentemente, non suo) che gli promette prosperità e protezione. Al risveglio dal sogno, egli compie un rituale estremamente significativo: erige la pietra su cui aveva dormito come "stele sacra" e la unge per consacrarla. Questo è il punto cruciale dell’episodio che, oltre a rivelare una delle tante pratiche pagane delle antiche tribù seminomadi giudee, rappresenta il diretto collegamento con Caranza, Rennes e probabilmente altre chiese simili.
Come ormai sappiamo, infatti, la maggioranza delle chiese cristiane veniva edificata sopra i resti di aree sacre pagane. Ciò avveniva o per motivi di sincretismo, convertendo gli antichi luoghi sacri che i popoli pagani non avevano affatto intenzione di abbandonare, oppure per schiacciare, opprimere e chiudere (in una tomba) gli antichi culti e le loro numerose divinità e superstizioni.
Frequentemente, in Lunigiana come in altre regioni, nell’altare della chiesa venivano murati gli idoli che si intendeva soppiantare, ed infatti nel solo territorio lunigianese troviamo altari che racchiudono statue-stele, menhir, tombe a cassetta o addirittura ceppi di alberi sacri.
Ebbene, non è possibile che, durante i lavori di restauro a Rennes e di ricostruzione a Caranza, siano venuti alla luce resti di idoli pagani - magari pietre sacre - che erano stati murati nelle fondamenta della chiesa? Verosimilmente si.
A Rennes, come, detto, il parroco Saunier registrò il ritrovamento di una tomba e di alcuni resti antichi. A Caranza, nonostante l’assenza di documentazione, è assolutamente plausibile che qualcosa sia stato ritrovato, dal momento che in zona, poco distante dall’abitato, sono presenti i resti di un castellaro preistorico, che testimoniano la presenza di una antica comunità.
Detto questo, è facile immaginare come ai curati delle due parrocchie, vedendo i reperti emersi dal suolo, sia venuto in mente il passo della Genesi relativo all’erezione di una pietra sacra da parte di Giacobbe e questo, forse, avrebbe motivato la scritta murata sull’ingresso. Il significato della citazione può essere duplice: da un lato potrebbe essere interpretato come trionfo del "dio vero" già presente ("c’è Jahweh in questo luogo ed io non lo sapevo!") sui falsi idoli, schiacciati dal peso enorme dell’imponente chiesa. D’altro canto, la citazione potrebbe anche rivelare un’errata interpretazione dei ritrovamenti da parte dei curati, i quali avrebbero creduto di trovarsi di fronte alla pietra di fondazione del tempio e, pensando che non fosse inusuale fondare chiese nel modo descritto in Genesi 28,17, abbiano scelto proprio la frase impaurita di Giacobbe per celebrare la scoperta. Quest’ultima ipotesi, tuttavia, sembra alquanto improbabile.
A comprovare la prima ipotesi, invece, rimane l’interpretazione della parte finale del brano citato, in cui Giacobbe promette, non prima di aver enunciato una serie di condizioni, di costruire sulla pietra un tempio e di dedicarlo a Jahweh e solo allora "Jahweh mi sarà come Elohim".
Giacobbe è fedele ad altre divinità (Elohim) ma, se Jahweh adempirà realmente alle sue promesse, egli lo farà rientrare nel suo pantheon personale ("mi sarà come Elohim"). Quindi l’episodio si riferisce ad una sorta di conversione.
Inoltre, il nome scelto da Giacobbe per battezzare il luogo, Bet-El, deriva secondo alcuni studiosi dal nome di una divinità adorata in ambito semitico, chiamata Bêt’ili.(2)
Da notare, infine, che il rituale di consacrazione della pietra incubazionale (in ebraico massebah) è stato proibito, in seguito, dalla legge deuteronomistica.
Anche questi ultimi dati fanno pensare certamente al ritrovamento di oggetti di culto pagano, più che a suppellettili paleocristiane.
Questa potrebbe essere, quindi, la spiegazione dell’enigmatica scritta incisa a Rennes-le-Château e a Caranza. Per quanto riguarda quest’ultima, però, rimane difficile spiegare la strana architettura della chiesa e il perché la porta sud sia stata murata. Forse, il fatto che l’iscrizione sia rivolta verso sud è indizio che proprio lì, nel cortile che la separa dal campanile, si cela il passato delle genti liguri che abitarono Caranza. Forse, lo stesso campanile è stato edificato, come spesso si riscontra, sulla base di una torre o altro edifico preesistente, e questo spiegherebbe la sua posizione decisamente insolita.
In ogni caso, la chiesa di San Lorenzo di Caranza meriterebbe uno studio più approfondito, anche a partire da alcuni enigmatici bassorilievi murati nella canonica, di cui si trovano eguali solo nel vicino borgo di Porciorasco, abitato gemello di Caranza, a pochi chilometri di distanza, e che sembrerebbero essere simboli templari.(3)

Note:
(1) E. Testa, Genesi, Milano, Edizioni San Paolo, 1999
(2) È tuttavia doveroso precisare che, in lingua ebraica, Bet-El significa "Luogo di El".
(3) Enrico Calzolari, Lunigiana terra di Templari, Marna Editrice



L'esiguo abitato di Caranza con l'imponente chiesa parrocchiale

Caranza - Architrave della canonica


Caranza - Iscrizione "Terribilis est locus iste"

martedì 8 febbraio 2011

Antichi luoghi di culto il Liguria 8

Bocchignola di Veppo: la strada dei morti

L’antica zona di insediamento ligure che, attualmente, fa parte del comprensorio di Veppo, meriterebbe uno spazio del tutto particolare, anche al di fuori di questa pubblicazione. Anno dopo anno, infatti, vengono scoperti nuovi affascinanti dettagli sulla quantità e tipologia di vita antropica preistorica.
L’ultima di dette scoperte è avvenuta nel 2004, quando è stata recuperata, con non poca fatica, la testa di una statua-stele di gruppo B. Il manufatto, disperso fino ad allora, era stato rinvenuto pochi anni prima presso la Foce di Veppo, in località Borseda ed è, oltre a quella di Zignago, l’unica statua stele ritrovata entro i confini politici della Liguria.
Proprio alla Foce di Veppo, vicino al luogo in cui è stato rinvenuto il prezioso reperto, si trova una importante tappa del viaggio alla scoperta degli antichi luoghi di culto liguri: si tratta della pieve medioevale di Bocchignola, situata in un pianoro verdeggiante sito tra il monte Bastia e il Castellaro, di cui gli stessi oronimi ci segnalano, come di consueto, la presenza di insediamenti preistorici.
Tale pieve deve essere esistita per un periodo verosimilmente molto lungo di tempo, dato che la memoria orale la colloca in una dimensione quasi fiabesca, che spesso indica un passato assai remoto. Della chiesa, forse intitolata a S. Michele, si hanno notizie fino al XV secolo, quando viene citata per l’ultima volta nell’Estimo Lunense.
Certo, l’umile Oratorio del Carmine che sorge oggi a Bocchignola non può, come nota giustamente il Formentini, rappresentare l’ecclesia altomedioevale descritta nei documenti. Ciò che vediamo oggi deve essere, quindi, il risultato di una ricostruzione ex novo in tempi verosimilmente più recenti, forse nel XVIII secolo.
In ogni caso, la tradizione orale parla di Bocchignola come luogo in cui sorgeva un tempio pagano, cristianizzato mediante la costruzione della pieve sopra citata, presso cui, fin da epoca indefinita, avrebbero trovato sepoltura i morti portati lì dalle regioni limitrofe.
Da Zeri, da Calice al Cornoviglio e anche da zone più lontane, infatti, i defunti sarebbero stati portati fino al "cimitero" di Bocchignola percorrendo la cosiddetta "strada dei morti", che avrebbe collegato tale località con Sasseta di Zignago, ai piedi del Monte Dragnone.
Secondo il Caselli, tracce di questa antica strada, che veniva percorsa dai familiari dei defunti per un lungo tratto dopo la sepoltura, come rito di accompagnamento dell’anima nell’aldilà, si troverebbero presso Sasseta, in località Pergola. Tuttavia, interrogando gli attuali abitanti di Sasseta, per lo più forestieri, non è stato possibile individuare tale località né sapere qualcosa di più sulla "strada dei morti". La memoria orale si deve essere esaurita con gli anziani intervistati dal Caselli negli anni ‘30 e, purtroppo, una grande tradizione ha smesso di essere tramandata.
Sempre il Caselli ci informa che, agli inizi del ‘900, durante alcuni restauri all’Oratorio del Carmine, sono venute alla luce - confermando, per l’ennesima volta, che la tradizione orale consiste più di verità che di fiaba - numerose ossa umane "giudicate vecchie di oltre mill’anni", tra cui alcune tibie di dimensioni gigantesche.
Ciò ha dimostrato che il "camposanto", di cui rimane ancestrale memoria, è realmente esistito. Se ne desume, quindi, che la "strada dei morti" è, probabilmente, un itinerario molto più antico di quanto non si pensasse e, forse, il frammento di statua-stele trovato a Borseda potrebbe essere un indizio in questo senso.
Solo recentemente, infatti, si è riconosciuto che le statue-stele sono probabilmente legate ad un contesto funerario. La loro funzione in tale ambito non è ancora ben chiara, tuttavia può essere spiegata dalle teorie, del tutto convincenti, di Romolo Formentini delle quali, per motivi di pertinenza, non ci occuperemo in questa sede.
Ebbene, è del tutto possibile che, se la
statua-stele di Borseda appartenne davvero ad un contesto funerario, questo contesto fosse in stretta connessione con la "strada dei morti" delineando, in accordo con i reperti trovati ad inizio ‘900, una tradizione antichissima, risalente agli insediamenti delle tribù liguri preistoriche.
Abbiamo tentato di ricostruire il percorso della "strada dei morti" utilizzando le informazioni del Caselli e ci siamo trovati di fronte a nuove interessanti scoperte. La strada, partendo da Bocchignola, attraversava un "monte a due vette", che non è altro che La Gruzza di Veppo, anche conosciuta come Porta di Veppo. Questo rilievo, appunto formato da due vette tondeggianti, oggi è coperto da una folta pineta, attraverso cui passa la strada asfaltata che porta al Passo dei Casoni. Il Gabrielli Rosi, in un suo libro, riporta che, anticamente, al posto della pineta vi era la giuzza di sucro, termine locale che significa "foresta di sughero". Le due vette, infatti, erano ricoperte da una folta selva di querce da sughero ed è evidente come il termine "Gruzza" sia una semplice metatesi del dialettale "giuzza". La tradizione locale, sempre riportata dal Gabrielli Rosi, ricorda quattro pietre particolari all’interno del bosco, che si diceva fossero abitate dal diavolo. Queste pietre erano chiamate "Tecchia delle campane", "Pietra cantarella", "Roccia dei pugni" e "Fusigià du Diau", cioè "focolare del diavolo". Sia il nome "tecchia" sia "fusigià" ci danno indizio che queste formazioni rocciose devono essere di conformazione tale da costituire un riparo, una sorta di rifugio, appunto. La presenza del diavolo, collocato nella selva dalla tradizione cristiana è, verosimilmente, un chiaro segnale che laggiù ci doveva essere qualcosa con cui la Chiesa non voleva che la gente tornasse in contatto. Magari un tempio all’aperto degli antichi liguri, magari rocce sacre che erano frequentate anche in tempi storici, più per ciò che Ubaldo Formentini definisce un "richiamo atavico" che per fede pagana ma a cui, ugualmente, era disdicevole avvicinarsi.
Che anche queste pietre facessero parte in qualche modo dell’antico itinerario funebre che partiva da Bocchignola?
In ogni caso, lasciato il "monte a due vette", sappiamo solo che la strada arrivava a Sasseta. Osservando una mappa o una foto satellitare, è evidente che, dalla Gruzza, la via più logica per arrivarci era il crinale, cioè quella che oggi è classificata come Alta Via dei Monti Liguri e assiduamente frequentata da trekker e fuoristradisti.
Questa teoria è compatibile anche con il fatto, indicato dalla tradizione orale, che molti dei morti condotti a Bocchignola provenissero dallo Zerasco e che, quindi, i parenti dei defunti dovessero percorrere proprio questa strada per tornare ai loro paesi d’origine.
Per imboccare tale itinerario, comunque, era necessario arrivare al Passo dei Casoni. Da lì, seguendo lo spartiacque verso ovest, si passava ai piedi del Monte Dragnone e si giungeva ad un bivio, in cui si doveva imboccare la lunga discesa verso Sasseta. Tale svolta potrebbe essere identificata con quella che, partendo dall’Alta Via, oggi permette di arrivare ai pascoli di Vezzanelli. Scendendo per questa strada, infatti, circa a metà si incontra uno stretto sentiero che porta direttamente a Sasseta.
Un altro elemento molto importante per definire la "strada dei morti" è la presenza di una pietra che, seppur non lavorata dall’uomo, almeno in apparenza, è comunque legata a qualche tradizione che, purtroppo, è andata perduta. Tale pietra, situata in corrispondenza del torrente Mangia, a poche centinaia di metri dall’abitato di Sasseta, è un enorme blocco di arenaria di forma cuboide, alto circa quattro metri e altrettanto largo. Il masso è quasi sicuramente di origine naturale e non presenta segni evidenti di scolpiture. Tuttavia, ci è stata posta sopra una madonnina che, recentemente, si è "arricchita" di un giardinetto artificiale di dubbio gusto. Purtroppo non sembrano essere sopravvissute tradizioni in merito, eppure la presenza della madonnina, come in altri casi, potrebbe indicare un probabile utilizzo pagano del masso, in seguito cristianizzato. Potrebbe essere plausibile, quindi, un suo significato all’interno dell’itinerario della "strada dei morti".
Potrebbe essere un segnale, un traguardo o una stazione in cui fermarsi lungo il percorso, in una sorta di via crucis ante litteram. Del resto, sappiamo che anche le "sacre stazioni" oggi presenti lungo i percorsi che portano ai santuari montani, appunto, sono verosimilmente una sovrapposizione cristiana ad una tradizione ben più antica.
La tradizione della "strada dei morti", che in Italia risulta quasi senza precedenti, risale verosimilmente al periodo preistorico delle genti liguri che, per motivi che ci sono sconosciuti, solevano trasportare i loro defunti in luoghi lontani, pratica che non è affatto sconosciuta e trova diversi riscontri in altri luoghi della Lunigiana storica. Certo, non è difficile immaginare che ci sia stato un motivo per questa scelta. Magari, a Bocchignola sorgeva un tempio all’aperto o una qualche formazione rocciosa consacrata che, per la sua energia, era ritenuta utile nel momento del trapasso.
Fatto sta che, distrutto il sacrario pagano di cui parla la tradizione e costruita la ecclesia de Bucagnola in segno di cristianizzazione, la tradizione della "strada dei morti" non si è modificata e, anzi, è giunta quasi intatta fino a noi, come ennesimo segno della grande potenza di tradizioni fortemente sentite e radicate fin nell’animo profondo delle genti liguri.
Tanti elementi e tante scoperte stanno, pian piano, convergendo in un unico grandioso disegno. Tuttavia, forse ancora molto resta da scoprire nella zona di Veppo. Infatti, in località Campo Picchiara (toponimo che, secondo Enrico Calzolari deriverebbe dall’unione del nome del dio osco Picus Martius al termine ara), sulla vetta ovest della Gruzza, sono state rinvenute strane aree nel bosco dove non crescono gli alberi, così enormi e precisamente squadrate che non possono che nascondere la mano dell’uomo…

Bocchignola di Veppo - Oratorio N.S. del Carmine

Oratorio del Carmine - recenti lavori di ristrutturazione


Ipotesi ricostruttiva del percorso della "Via dei Morti"