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venerdì 12 novembre 2010

Antichi luoghi di culto in Liguria 3


Il santuario mariano di Roverano, presso Carrodano
 
Si tratta di uno dei santuari più antichi della Liguria orientale, fondato intorno al 1350, con una storia che è, più che altro, leggenda.
Tale storia ricalca uno schema narrativo utilizzato spessissimo nei racconti di apparizioni mariane, il cui significato esamineremo in seguito.
Il 7 settembre di un anno imprecisato (si dice tra il 1350 e il 1352), due pastorelle, di cui una sordomuta dalla nascita, stavano riposando sotto un ulivo sul monte Roverano, non distante dal piccolo borgo di L’Ago.
Improvvisamente, apparve loro una bellissima signora vestita di azzuro, ovviamente la Madonna che, apostrofando la ragazzina muta, la invitò ad andare a chiamare il parroco di L’Ago e condurlo al suo cospetto. Inutile dire che la pastorella acquistò miracolosamente voce e udito e si recò a chiamare il parroco il quale accorse, insieme a metà della popolazione del borgo, entusiasticamente per vedere la Vergine. Ma la bella signora era già scomparsa.
Da un ulivo, però, pendeva un quadro raffigurante la Madonna col Bambino. Il parroco decise di portarlo nella canonica per sistemarlo, in seguito, nella chiesa paesana ma, il mattino dopo, il dipinto non era più dove l’aveva lasciato e, solo dopo lunghe ricerche, venne rinvenuto sul monte Roverano, appeso al medesimo ulivo del giorno prima.
Fu chiaro, quindi, che era in quel luogo che la Vergine voleva essere venerata e venne subito eretta una cappella che fu poi ampliata varie volte fino alla disposizione attuale, del 1875(1).
Ma c’è anche un altro evento miracoloso che, al contrario dell’apparizione, si ripete tutti gli anni, proprio il 7/8 settembre, durante i festeggiamenti che coinvolgono gli abitanti di L’Ago e Termine: la fioritura eccezionale degli ulivi.
Si dice, infatti, che gli ulivi che circondano il santuario fioriscano miracolosamente durante la processione, completamente fuori stagione.
Quest’ultima tradizione è molto significativa poiché ci permette di fare un’ipotesi interpretativa dell’intera leggenda.
Innanzitutto, la ricorrenza dell’apparizione cade il 7/8 settembre (come la processione al monte Dragnone), data che, secondo il calendario gregoriano, corrisponde alla Natività di Maria e, secondo il costume agricolo, segna la fine dell’estate e dei raccolti.
È del tutto probabile, come abbiamo riscontrato in precedenza, che la Chiesa Cattolica abbia sovrapposto il culto mariano alle festività pagane, per cui la celebrazione della Natività di Maria potrebbe essere stata programmata proprio in quella data per sostituirsi ad un evento rituale precedente, magari di tipo agrario.
La coincidenza di tale periodo con la fine dei raccolti, infatti, sembra un buon indizio in questo senso. Feste agrarie simili sono state celebrate fin dagli albori dell’agricoltura, per cui non sembra strano che i liguri del XIV secolo abbiano voluto la Madonna come nume tutelare di questo particolare momento in cui tutto diventa più precario, si va verso l’inverno e solo il duro lavoro estivo-autunnale può garantire la sufficienza di cibo conservato, nei mesi freddi.
Come già detto per le altre leggende esaminate fin qui, anche questa “Madonna di Roverano” potrebbe essere solo un aggiustamento cristiano di una divinità agreste molto più antica, una grande madre della fertilità, personificazione della terra stessa, che veniva venerata forse nel tentativo di allungare di qualche tempo l’abbondanza della messe oppure, più verosimilmente, come buon auspicio per la primavera successiva in cui la natura, memore della devozione autunnale degli uomini, sarebbe stata generosa nel donare i suoi frutti.
In questo contesto, sembra inserirsi coerentemente la “fioritura miracolosa” degli ulivi che potrebbe essere stata introdotta in tempi lontani, inizialmente come ritualità di tipo simbolico.
Non una reale fioritura ma, forse, un evento in cui i rami di alcuni alberi venivano decorati con rappresentazioni floreali. Oppure i fiori potevano essere dipinti o marchiati sul corpo con colori naturali, tramite stampi, simili alle pintaderas preistoriche.
Tale pratica potrebbe avere avuto lo scopo di “ringraziare” la terra per quanto dato, e “invitarla” a fare altrettanto l’anno successivo, al suo risveglio dal sonno improduttivo dell’inverno.
Questa tradizione potrebbe tranquillamente essere giunta, neanche tanto distorta, fino a noi e, in seguito, collegata al culto della Madonna.
Inoltre, ricordiamo che il fiore può considerarsi, generalmente, un simbolo solare e, quindi, avere una valenza in più nella cultura agricola, in quanto il sole è la conditio sine qua non della crescita delle coltivazioni. Incisioni raffiguranti forme solari al limite del floreale sono state rinvenute, in grande quantità, in tutti i siti rupestri della Liguria.
Notiamo, infine, come il fiore sia collegato per similitudine alla farfalla, simbolo dell’anima slegata dal corpo e, quindi, dello spirito dei defunti.
Ritornando al santuario, comunque, riscontriamo che il toponimo “Roverano” deriva dal latino robur, con il significato di “forza” o “robustezza” ma anche di “quercia”. La rovere, il più famoso tipo di quercia, prende nome proprio da questa radice.
È possibile allora collegare nuovamente il monte Roverano con i culti naturalistici, questa volta dal punto di vista arboreo. La simbologia dell’albero, di cui abbiamo parlato brevemente in precedenza, è, oltre quella di asse del mondo, quella di identificazione con l’uomo. L’albero, come l’uomo, è fatto di un tronco portante, attaccato alla terra con i suoi piedi/radici, che si espande nelle tre dimensioni grazie ai suoi rami, le braccia.
Il monte Roverano è un passaggio obbligato per raggiungere il Passo del Bracco e, quindi, sito su una via di comunicazione importantissima anche nell’antichità. Non è improbabile che fosse un luogo di culto di una certa importanza e che la devozione dei valligiani pre-romani, difficile da estirpare, sia stata “giustificata” dall’apparizione della Madonna che avrebbe, in un certo senso, consacrato uno spazio profano e ne avrebbe resa, quindi, tollerabile la frequentazione.
È probabile che i liguri di oggi, senza nemmeno saperlo, stiano frequentando i luoghi spirituali dell’antichità, così come hanno fatto i loro padri e i loro nonni prima di loro, in una continuità fluida che, seppur cambiando gli oggetti di venerazione, ricalca una spinta spontanea verso certe mete, oppure una tradizione talmente potente da non riuscire ad estinguersi, nonostante i millenni.

Note:
(1) F. M. Bussetti, G. Costa Maura, I Santuari della Liguria, Genova, AGIS, 1980; M. Gamba, Apparizioni Mariane, Udine, Edizioni Segno, 1999


La facciata del Santuario dopo gli ultimi restauri


Il dipinto raffigurante la Vergine con Bambino

venerdì 5 novembre 2010

Antichi luoghi di culto in Liguria 2

L’antico santuario sulla vetta del monte Dragnone (Zignago)

Il monte Dragnone è un’imponente altura che, emergendo dalla valle del torrente Gravegnola, affluente di sinistra del Vara, si innalza fino a raggiungere i 1011 metri di altezza.
È inconfondibile a causa della sua forma perfettamente conica, i cui versanti sono interamente ricoperti da una pineta, tranne alcuni tratti, il più ampio dei quali a nord, che sono stati soggetti, fin da tempi immemori, ad una continua erosione che ha causato grandi franamenti.
Le pareti franate appaiono di un insolito colore grigio-verde, siccome la terra dilavata ha lasciato scoperto uno spesso strato di serpentini più resistenti ma che stanno comunque, inesorabilmente, scivolando a valle.
Ai piedi del monte si trova l’abitato di Pieve, da cui si diparte l’unica strada - sterrata - per arrivare in cima. Dalla vetta si può godere di una vista impressionante: verso est, la foce del Magra, il monte Caprione e il Golfo della Spezia; verso sud, l’intero crinale delle Cinque Terre e la media Val di Vara; verso ovest, il Passo del Bracco, l’alta Val di Vara e, a volte, il promontorio di Portofino; verso nord, invece, il vicino spartiacque tra Val di Vara e Val di Magra, lo zerasco, il Passo dei Due Santi e il pontremolese.
A un centinaio di metri dal versante nord del Dragnone si trova il monte Castellaro di cui, a partire dal toponimo, possiamo intuire l’antica funzione. Recentemente, infatti, scavi archeologici condotti sulla sommità di questo massiccio (soggetto ad una rapida erosione), hanno portato alla luce un importante insediamento antropico dell’età del bronzo finale, oltre a stratificazioni successive, fino all’alto medioevo(1).
Anche la vetta del Dragnone, occupata da un santuario mariano, è stata interesse di scavi archeologici che hanno rilevato presenze antropiche coeve a quelle del Castellaro.
I reperti, sfortunatamente, si trovavano in giacimento secondario, probabilmente dovuto all’escavazione di terreno per costruire le fondamenta del santuario, quindi non è stato possibile effettuare una stratigrafia efficiente(2).
In ogni caso, è stato importante poter verificare l’ipotesi, già da tempo formulata, di un’attività umana sul monte.
Il nostro interesse ricade, infatti, sul rapporto corrente tra questi dati archeologici e l’esistenza di un sacrario mariano con le relative tradizioni.
L’edificio ha subìto, nel tempo, varie ricostruzioni, di cui l’ultima nel 1856, come testimonia l’incisione sul portale d’accesso, su una preesistente costruzione del XVIII secolo, a sua volta sorta su una base più antica.
In questo caso la tradizione orale non ci parla di apparizioni della Madonna ma riporta una ritualità molto più antica.
Si tratta dell’annuale processione al santuario della Madonna del Dragnone che si svolge, ancor oggi, l’8 settembre. Un tempo, tuttavia, l’evento non si risolveva in una semplice processione: ogni partecipante, infatti, portava con sé un ramo d’albero (alcuni dicono di cerro) che, durante la salita, veniva piantato in un pascolo insieme a tutti gli altri per formare un cerchio nel quale, dopo la messa, nel pomeriggio, i fedeli si sarebbero radunati per mangiare e fare giochi in compagnia(3).
Estremamente rilevante per la nostra ricerca è la presenza di questo circolo fatto di rami d’albero, quasi un cerchio magico all’interno del quale la comunità si sente protetta e può darsi allo svago senza timori. Questo rituale simbolico non fa sicuramente parte del bagaglio tradizionale cristiano. Sembra, invece, una tradizione dalle origini ben più antiche, frutto di una cultura religiosa di tipo sciamanico.
La figura del cerchio sacro, infatti, è fortemente legata al personaggio dello sciamano poiché è lo strumento che gli permette sia di entrare in contatto con il divino, sia di proteggersi da esso. Nell’ambito delle scienze occulte, il cerchio rappresenta un’isola protetta, all’interno della quale l’evocatore può difendersi dal potere ultraterreno di ciò che viene evocato.
In ambito strettamente celtico, la tradizione riporta che un cerchio, formato da un ramo d’albero piegato, servì all’eroe Cùchulainn per fermare l’assalto dei nemici alla sua patria(4).
Invece, parlando più generalmente di civiltà celto/ligure, ci accorgiamo di come il cerchio sia spesso rappresentato nelle incisioni e nelle opere megalitiche. Figure circolari o coppelle, infatti, rappresentano buona parte del corpus artistico rupestre ligure e, sebbene le originali disposizioni siano andate disperse, il cerchio è un simbolo centrale in molti monumenti megalitici italiani.
Inoltre, la figura del druido, comune ai Celti e ai Galli, entrambi "vicini" dei Liguri, è sicuramente frutto di una cultura dalle basi sciamaniche e, per molti versi, ricalca le funzioni spirituali dello sciamano stesso.
L’etimologia della parola "druido", tra l’altro, sembra derivare dal termine sassone dru wis, con il significato di conoscenza, in cui la parola wis indica l’albero o, più generalmente, il legno.
È assai probabile, quindi, che il rituale che accompagnava, fino al primo dopoguerra, la processione in vetta al Dragnone fosse di origine pre-romanica, verosimilmente di derivazione celtica, tanto importante per le genti liguri del passato che, nonostante la cristianizzazione, è riuscito a sopravvivere fino al terzo millennio.
Possiamo ipotizzare, quindi, un luogo di culto molto antico sul monte Dragnone, legato forse al preistorico culto delle cime.
Di tale culto si è parlato molto negli ultimi cinquant’anni e l’ipotesi sembra ormai consolidata, vista la densità geografica di testimonianze in tutto il territorio che era stato dei liguri nell’antichità.
A rafforzare le ipotesi in questo senso per il Dragnone, i reperti rinvenuti sulla sommità, poco distante dal santuario, sono riconducibili ad artefatti votivi(5), evidente traccia di una antica associazione del monte a qualche divinità.
In Liguria, come si è detto, molte cime erano soggette a venerazione, già a partire dalla preistoria(6) e l’intera catena appenninica dovrebbe il suo nome a Pen, dio celto/ligure delle vette, ipotesi basata sulla denominazione "in alpe pennino" della carta Peutingeriana.
In questo senso, ci è di sostegno una leggenda antica, che narra di un’età lontanissima in cui il Dragnone e il Castellaro non erano divisi come ora bensì uniti e, insieme ad un altro monte poco distante (attualmente nel comune di Zeri), formavano un massiccio unico chiamato Monte Fiorito. Gli uomini vivevano su questo monte dai caratteristici prati sempre in fiore, spensierati, in una sorta di età dell’oro in cui non c’erano sofferenze, disuguaglianze, malattie ecc.
Questo paradiso terrestre finì per opera del Diavolo (ovviamente, introdotto dopo la cristianizzazione della leggenda) che, in un’apocalissi orogenetica, divise con una zampata il Monte Fiorito e lo ridusse così come lo conosciamo oggi.
La leggenda, dal sapore di fiaba, ci indica due dati importantissimi: il primo è la sacralità del monte, collegato al benessere paradisiaco e all’intrinseca immortalità, insiti nel concetto universale di età dell’oro. Una sacralità che già la leggenda ci indica come antichissima.
Il secondo è l’insediamento umano sul monte. La storia ci dice, infatti, che gli uomini vivevano su questo monte. Tale riferimento potrebbe derivare dalla coscienza latente e antica che quel luogo era, una volta, dimora del popolo che, in seguito, fondò i nuclei abitativi sottostanti. Questi dati ci incoraggiano nell’ipotesi di un insediamento preistorico sommitale sul Dragnone che, se non era a carattere abitativo, poteva almeno essere di natura religiosa o in qualche modo sacra.
In questo caso, purtroppo, la toponimia non ci è d’aiuto poiché il significato del toponimo "Dragnone", di probabile origine celtica, è attualmente sconosciuto, mentre il toponimo "Cornia", l’antico nome con cui veniva chiamata la zona, deriverebbe dalla radice non-indoeuropea karr-, con il significato di durezza o forza, il che non influisce particolarmente sulla nostra ricerca.
Nonostante ciò, e grazie a quanto detto, si può comunque ipotizzare con una certa sicurezza che il Dragnone fosse, per i Liguri, un importante punto di riferimento spirituale. Non a caso, poco lontano dal monte è stata ritrovata la famosa statua-stele n° 1, di cui si è parlato nella Premessa di questo libro.
È stato ipotizzato che tale stele appartenga originariamente al gruppo A (III/II millennio a.C.) ma che sia stata rimaneggiata in tempi più recenti, tanto da indurre gli studiosi ad associarla al
gruppo C (Età del Ferro)(7).
In particolare, l’iscrizione in caratteri etruschi scolpita sul lato sinistro della stele viene considerata, in ordine di tempo, l’ultima traccia di lavorazione antropica sul monumento, risalente forse al IV/III secolo a.C. circa.
Su questa iscrizione, che in caratteri latini possiamo riportare come "mezunemunius", sono state formulate diverse ipotesi, molte delle quali alquanto fantasiose, senza riuscire a dare una vera e definitiva interpretazione.
L’unica ipotesi accreditata, fino ad oggi, sostiene che, al di là dell’interpretazione della scritta, essa sia una trascrizione in caratteri etruschi di parole appartenenti alla lingue ligure, di cui si sa poco o niente.
Alcuni studiosi hanno considerato la possibilità che la stele possa essere stata riutilizzata come cippo d’ingresso al bosco sacro di monte Dragnone ma, anche questa affascinante supposizione, non ha potuto avere, per ora, riscontri archeologici certi.
Fatto sta che la sommità del Dragnone, oggi venerata in nome della Madonna, è stata venerata fin da tempi antichissimi, forse anche in relazione a divinità pagane esportate o traslate dal mondo celtico. I nomi di queste divinità sono andati perduti ma ciò che è rimasto, la ritualità del cerchio sacro e le spoglie archeologiche, ci danno una prova importante della loro esistenza e lanciano, ancora una volta, a noi nel presente, un messaggio di conoscenza che ha attraversato i secoli sopravvivendo ad un misterioso, remoto passato.

Note:
(1) AA.VV., Zignago 1: gli insediamenti e il territorio, Genova, CLSCM, 1977(2) Idem
(3) C. Gabrielli Rosi, Leggende e luoghi della paura tra Liguria e Toscana, Firenze, Pacini Editore, 1991(4) J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, Milano, Rizzoli Editore, 2006(5) Fonte: Soprintendenza Archeologica della Liguria(6) M.Giuliani (1964), Monte Burello e il culto ligure delle cime, in Archivio Storico per le Provincie Parmensi, serie IV, n. XVI, pp.39-47(7) A. C. Ambrosi, Corpus delle statue-stele lunigianesi, Borfighera, Ist. Internaz. di Studi Liguri, 1972


Monte Dragnone visto da Beverone

Monte Dragnone e Monte Castellaro. In basso la Gruzza di Vezzanelli


Il Santuario di N.S. del Dragnone visto da Monte Castellaro (in primo piano)