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lunedì 20 dicembre 2010

Antichi luoghi di Culto in Liguria 7

Monte Beverone, l’Olimpo della Val di Vara
Lasciata alle spalle l’esigua chiesetta dell’Ulivo, la mulattiera sale fino all’abitato di Rocchetta Vara, attraverso il quale si passa per incamminarsi verso Zignago. Se, al contrario, si svolta a destra appena prima del paese, si può percorrere la ripida e disagevole mulattiera che conduce a Beverone.
Tale toponimo designa un imponente sperone roccioso di altezza massima 706 metri s.l.m. che domina tutta la Val di Vara ed oltre, dal Passo del Bracco fino a Bocca di Magra, ed il modesto paesello costruito a ridosso di esso, sul versante nord. Il villaggio è composto da una ventina di case in pietra intonacata, tinte di un particolare color vinaccia che è difficile trovare altrove e tutte hanno la parvenza di essere rimaste proprio così come le vide, nel 1933, il "Viandante", lo studioso Carlo Caselli, che partì "a trotto d’asino" per visitare i borghi più sconosciuti della Lunigiana.
Infatti, a quel tempo, Beverone era considerato paese della Lunigiana, tanto che, come ci informa il Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana, nel 1839 era ancora sotto la giurisdizione di Aulla.
Questo minuscolo borgo, all’apparenza privo di interesse storico, cela in realtà un passato importante, rivelatoci già in parte dal suddetto dizionario che lo definisce prima "villaggio con castellare e chiesa parrocchiale" e in seguito "castello con parrocchia".
Sulla cima del monte, infatti, dove la macchia erbosa si ritrae per lasciar posto alla nuda roccia, sorge la chiesina di San Giovanni Decollato, dal cui sagrato si gode una delle più belle panoramiche della Liguria di levante. Oltre il muretto che delimita lo spiazzo, il monte cala a picco verso la valle in una suggestiva parete rocciosa irta di massi aguzzi e ornata, qua e là, da coraggiosi arbusti mediterranei. Il vento spira costantemente sulla vetta e, come testimonia la memoria orale, durante i temporali essa è bersagliata da numerose saette che scaricano il loro furore elettrico sulla roccia inerme.
Questo dato è interessante poiché è risaputo che i fenomeni naturali particolari come appunto fulmini, tuoni ecc. erano oggetto di timorata venerazione da parte degli antichi Liguri e, in alcune zone, rimangono tracce toponimiche di simili culti.
In ogni caso, una vetta così eccezionale deve essere stata frequentata fin dall’epoca preistorica, se non altro per la sua estrema rilevanza strategica come "vedetta". Infatti, poco fa si era parlato di un castello, anche se chi si aspetta un bel forte medioevale turrito e incoronato di merli rimarrà forse deluso.
Il castello, o quel che ne rimane, infatti, costituisce la base irregolare su cui è stata costruita, probabilmente prima dell’anno mille, proprio la chiesa parrocchiale di San Giovanni, che viene pubblicizzata dagli enti turistici locali come una delle più antiche di tutta la Liguria.
Considerando queste informazioni, si può dedurre che il "castello" di cui si accennava doveva essere, in realtà, un castrum romanico edificato forse come vedetta in un punto veramente funzionale allo scopo. In effetti, se si osserva bene la parrocchiale, la forma asimmetrica della chiesa e il profilo eccessivamente tozzo del campanile staccato fanno subito pensare ad una fortificazione più che a un edificio religioso.
Proprio alla base del campanile/torre, come riporta il Caselli, era usanza antica (perpetrata fino ai primi anni del ‘900) di deporre i morti, "senza cassa e privi d’ogni cosa terrena", in due profonde buche, una per gli uomini e l’altra per le donne, quasi si temesse che anche i cadaveri potessero commettere peccati carnali.
Tali buche, coperte in antichità solo con lastre d’ardesia ed oggi murate, fornirebbero sicuramente, in caso di scavi archeologici, ottimi indizi sulla cronologia di frequentazione del sito e costituirebbero un primo campione per lo studio di una pratica funeraria di cui ancora si sa poco.
Oltre a riportare questa inquietante tradizione, il Caselli ci informa di aver notato, poco distante dalla parrocchiale, "tracce evidenti d’antiche capanne, forse abbandonate prima del mille, quando fu eretta la chiesa, una delle più antiche della regione".
L’osservazione del Caselli è di estrema rilevanza per rafforzare l’ipotesi di un insediamento preistorico in vetta al Beverone e la parola "castellare" utilizzata nel Dizionario del Repetti non può che far pensare anch’essa ad una fortificazione preistorica a cui, per importanza strategica, sarebbe succeduto lo stanziamento castrense romanico, in seguito trasformato in chiesa.
Se a queste considerazioni aggiungiamo l’inusuale pratica d’inumazione in buche ai piedi del campanile/torre, sopra una vetta strettamente legata al fenomeno atmosferico dei fulmini, appare evidente che non stiamo effettuando ipotesi casuali e azzardate. Inoltre, un’interessante tradizione orale locale narra che l’abitato di Beverone si trovava, anticamente, sulla vetta del monte, vicino alla chiesa. Successivamente, a seguito di un cataclisma, il villaggio sarebbe scivolato più a valle, fermandosi dove lo troviamo ora.
Sembra di poter dire, senza esagerare, che questa breve leggenda costituisce la "prova del nove" della nostra ipotesi e rappresenta, per gli autoctoni, un’inconsapevole consapevolezza del proprio passato.
Oltre a confermare le nostre supposizioni, la breve leggenda ci dà un importante indizio sulla motivazione dell’abbandono dell’insediamento sommitale. Il "cataclisma" di cui si parla, infatti, magari legato ai frequenti fulmini che si abbattono sul monte, potrebbe aver spazzato via il villaggio in epoca remota e, verosimilmente, indotto la popolazione a trasferirsi più in basso, sul versante più protetto del Beverone, al fine di evitare altri disastri. Del resto, è quello che è successo, seppur in termini diversi, nel VII e VIII secolo, lungo tutta la costa ligure: dopo il passaggio delle orde di Rotari, i sopravvissuti al massacro si trasferirono lentamente verso la costa, dove pensarono di essere più al sicuro da nuove incursioni barbariche.
È del tutto plausibile, quindi, che la sommità del monte Beverone abbia ospitato, nella preistoria, un insediamento abitativo con castellaro (e, forse, necropoli) che, qualche secolo dopo l’abbandono, sia stato occupato dall’esercito romano e trasformato in presidio militare. In seguito all’abbandono del sito anche da parte dei latini, il nascente cristianesimo lo avrebbe trasformato in luogo di fede, esorcizzando ciò che era stato prima anche se, forse, non abbandonando la sepoltura in fossa comune, usanza verosimilmente antica.
Oltre a ciò, si consideri che Beverone sorge in prossimità dell’antico percorso che, scendendo dal Passo dei Casoni, si dirige verso il Golfo della Spezia attraversando dapprima Stadomelli poi Beverino.
Proprio quest’ultima località sembra molto legata a Beverone, tanto che, in origine, entrambi venivano chiamati con il toponimo Beverino, che discenderebbe dal verbo latino bibere, che solitamente indica un luogo adatto all’abbeveraggio del bestiame oppure da bedum/bevum, frequente radice di idronimi col significato di "abbondanza d’acqua".
Di certo l’acqua non deve essere stata la causa dell’omonimia tra i due insediamenti poiché, se Beverino si trova in prossimità del Vara, in una vallecola ricca di sorgenti, Beverone, sulla cima del suo monte spelacchiato e piuttosto arido, probabilmente non ha mai conosciuto una vera abbondanza idrica.
Può essere che i due borghi fossero legati da un’origine comune, essendo uno ai piedi dell’altro, magari come centro abitato e centro religioso e/o funebre di una medesima comunità che li avrebbe, per questo, frequentati entrambi.
In proposito di Beverino, recentemente il
Prof. Enrico Calzolari, noto sostenitore dell’Archeoastronomia ligure e autore di notevoli scoperte in tale campo, ha studiato gli allineamenti solari delle monofore paleocristiane alla base della cappella di San Cipriano di Beverino, comparandoli a quelli del sito archeoastronomico di San Lorenzo al Caprione, purtroppo senza trarne risultati soddisfacenti.
Le tre monofore, orientate nord/ovest/sud, hanno gradi di orientamento diversi da quelli di San Lorenzo al Caprione e inquadrano azimut solari differenti. Tuttavia, anche se forse non ci sono collegamenti tra San Cipriano e Beverone, la monofora orientata nord, l’unica che non corrisponde ad un azimut solare, si trova orientata esattamente verso monte Beverone, con una differenza di poco superiore ai 10", distribuiti su quattro chilometri in linea d’aria.
Che San Cipriano presso Beverino e il monte Beverone fossero in qualche modo connessi tra loro? Che esistesse qualche funzione, magari religiosa, che accomunava i due siti? Forse uno studio archeoastronomico della chiesa di San Giovanni di Beverone risponderebbe a questi quesiti. Per quanto riguarda San Cipriano, invece, ulteriori studi sono impossibili a causa degli edifici sorti, nel tempo, intorno alla cappella, che non permettono alle monofore di inquadrare il sole se non quando è già alto sull’orizzonte.
Forse monte Beverone è l’Olimpo della Val di Vara, un luogo "irraggiungibile" dove le antiche genti collocarono i loro déi, dove uomini forti e tenaci stabilirono la loro dimora in un luogo impervio, spesso soffocato da basse nubi e bersagliato dai lampi, costantemente frustato dai venti. Forse, quegli uomini stessi erano déi, in una età dell’oro in cui la razza umana era più possente e, forse, più propensa alla felicità.

Beverone, la parrocchiale di San Giovanni Decollato


La media Val di Vara vista da Monte Beverone


Monte Beverone - antica spianata sommitale


Beverone - il ripido sentiero verso la chiesa

giovedì 2 dicembre 2010

Antichi luoghi di culto in Liguria 5


Cassana: castellaro, chiesa e grotte

Il territorio di Cassana, su cui sono sparse otto frazioni, prende il nome dal torrente omonimo, che sgorga dal monte Bardellone, pochi metri sotto il passo e si snoda in una valle profonda e verdeggiante, fino alla confluenza con il Rio Redarena che poi si getta nel Vara.
Sulla sommità di un monte, a metà dell’antico percorso Levanto/Borghetto Vara di cui abbiamo già parlato, sorge il nucleo principale del paese, costituito dalle frazioni Corneto, Il Prato, La Via e Chiesa. Proprio quest’ultima frazione suscita il nostro interesse poiché, se le altre località si sono sviluppate solo a partire dal X secolo, Chiesa ha un’origine più antica, collocabile nell’ultima fase dell’età romanica (III/V secolo).
L’attuale chiesa parrocchiale di San Michele, che dà il nome alla località, infatti, è stata costruita nel XVI secolo sulla base di un preesistente edifico difensivo romanico. Quello che oggi è il campanile era, una volta, la torre a pianta quadrangolare della fortificazione ed i possenti muri perimetrali della chiesa erano antiche muraglie a probabile difesa di un insediamento militare relativamente stabile.
In effetti, la posizione della fortezza risulta rilevante ai fini di un controllo militare del territorio e della rete viaria, poiché si trova in posizione dominante rispetto alla strada principale dal mare ai monti di cui sopra, oltre alle mulattiere delle vallate circostanti, compresa la direttrice EO, dal golfo spezzino al genovesato.
Tuttavia, il castrum romanico non è il primo insediamento nella zona. A nord-ovest del borgo di Corneto, infatti, si trova il monte Castellaro, lungo una delle mulattiere che portano alla Foce del Bardellone. Il toponimo "Castellaro", come abbiamo già notato, è quasi sempre sinonimo di un insediamento fortilizio preistorico, i cui resti sono stati effettivamente rinvenuti su questa sommità.
Si tratta di imponenti muri a secco disposti a terrazze, simili a quelli ritrovati in molti altri siti della stessa tipologia. Tale castellaro preistorico controllava, molto probabilmente, l’antica mulattiera vicino alla quale sorge, come avrebbe fatto il forte romanico in tempi successivi.
L’insediamento umano in queste valli è sicuramente molto antico e, nell’intricato sistema di cavità carsiche che caratterizza la vallata, alcuni studiosi hanno ipotizzato, per ora senza riscontri, una frequentazione dell’homo neanderthalensis.
Proprio alla stretta imboccatura di una di queste cavità, chiamata "Resciadora" (sfiatatoio), posta sul ciglio della strada che porta a Pignone, potrebbe essere legato un antico culto naturalistico.
Questo anomalo fenomeno carsico si presenta, infatti, come un angusto tunnel con due aperture: quella posta più in alto, nel sottobosco, è un pericoloso inghiottitoio di circa un metro di diametro, mentre quella posta a livello della strada è una singolare fenditura rocciosa da cui, secondo la leggenda, in estate soffia un vento freddo e, in inverno, sgorga un’acqua limpida e gelata. Il vento freddo proverrebbe addirittura dal mare e, infilandosi in un’apertura costiera, sarebbe incanalato dalle cavità carsiche fino a sfociare a Cassana.
Effettivamente, con un rapido sopralluogo, ci si accorge di come la leggenda sia, ancora una volta, vicina alla realtà. L’aria che soffia incessante dallo sfiatatoio, infatti, è decisamente fredda anche in pieno agosto e il rivolo di acqua pura che ne sgorga sembra destinato ad aumentare la portata, nelle stagioni piovose. La Resciadora, inoltre, fa parte del complesso sotterraneo della Caverna Ossifera, cavità naturale dove nel 1824 il professor Paolo Savi di Pisa rinvenne grande quantità di ossa di varie specie animali.
Su questo sito aleggiano diverse leggende che lo vedono dimora di fate malvagie e diavoli, luogo di quelle diaboliche processioni di lumi che sono tanto frequenti nella tradizione orale ligure.
In effetti, è possibile ipotizzare una frequentazione sacra del sito proprio partendo da queste piccole leggende.
Fate e diavoli, infatti, in quanto esseri dell’altro mondo, sono in stretto contatto con il regno dei morti e la loro funzione, nella favolistica tradizionale, è proprio quella di intermediari tra i due mondi. Inoltre, la processione di lumi di cui si parlava prima è una manifestazione che i morti, appunto, mettono in atto nel regno dei vivi. In tutte le storie che riportano queste processioni, chiamate anche "menada", esse sono sempre in contatto stretto con l’aldilà. I partecipanti a questa ritualità blasfema sono spesso descritti come fantasmi, morti, ossa di morti, fiammelle (cioè fuochi fatui) o streghi. Gli streghi, nella cultura popolare europea, sono sicuramente il rimasuglio di un immaginario antico, che rimanda a personaggi dotati di poteri "magici" di tipo sciamanico e, per questo, legati anch’essi al mondo dei morti(1).
Il fatto che le leggende fiorite intorno alla Resciadora, quindi, siano imperniate tutte su figure mitiche che da sempre hanno a che fare con il mondo dei morti, non può che suggerirci l’ipotesi che questo luogo così suggestivo, che unisce due leitmotive della sacralità preistorica, la grotta e la sorgente, avesse in qualche modo a che fare con le pratiche funebri. La grotta, infatti, è il significativo luogo di sepoltura preferito dalle antiche genti liguri, come ci dimostrano, ad esempio, i siti sepolcrali dei Balzi Rossi (IM), Arene Candide (SV), Equi Terme (MS) ecc.
Questo potrebbe giustificare anche l’evidente intento esortativo delle leggende a non avvicinarsi troppo ad un luogo popolato di essere diabolici e soprannaturali, come memoria inconscia di un sito forse importante per la religiosità pagana, considerato "empio" e, quindi, interdetto ai cristiani.
Si tratta solo di un’ipotesi, certo, ma forse non tanto lontana dalla realtà. Gli indizi ci sono.
Inoltre, non dimentichiamo che il nome "Cassana", come già detto, deriva probabilmente dal termine celtico cassanus, che indicava la quercia, albero sacro per i celto/liguri e, forse, proprio in questa vallata era situata una selva consacrata, per cui il termine generico sarebbe diventato, poco a poco, toponimo.

Note:
(1) Carlo Ginzburg, Storia notturna, Torino, Einaudi, 1995


Sentiero Bardellone-Cassana: passerella medievale

Cassana, interno della grotta Resciadora


venerdì 5 novembre 2010

Antichi luoghi di culto in Liguria 2

L’antico santuario sulla vetta del monte Dragnone (Zignago)

Il monte Dragnone è un’imponente altura che, emergendo dalla valle del torrente Gravegnola, affluente di sinistra del Vara, si innalza fino a raggiungere i 1011 metri di altezza.
È inconfondibile a causa della sua forma perfettamente conica, i cui versanti sono interamente ricoperti da una pineta, tranne alcuni tratti, il più ampio dei quali a nord, che sono stati soggetti, fin da tempi immemori, ad una continua erosione che ha causato grandi franamenti.
Le pareti franate appaiono di un insolito colore grigio-verde, siccome la terra dilavata ha lasciato scoperto uno spesso strato di serpentini più resistenti ma che stanno comunque, inesorabilmente, scivolando a valle.
Ai piedi del monte si trova l’abitato di Pieve, da cui si diparte l’unica strada - sterrata - per arrivare in cima. Dalla vetta si può godere di una vista impressionante: verso est, la foce del Magra, il monte Caprione e il Golfo della Spezia; verso sud, l’intero crinale delle Cinque Terre e la media Val di Vara; verso ovest, il Passo del Bracco, l’alta Val di Vara e, a volte, il promontorio di Portofino; verso nord, invece, il vicino spartiacque tra Val di Vara e Val di Magra, lo zerasco, il Passo dei Due Santi e il pontremolese.
A un centinaio di metri dal versante nord del Dragnone si trova il monte Castellaro di cui, a partire dal toponimo, possiamo intuire l’antica funzione. Recentemente, infatti, scavi archeologici condotti sulla sommità di questo massiccio (soggetto ad una rapida erosione), hanno portato alla luce un importante insediamento antropico dell’età del bronzo finale, oltre a stratificazioni successive, fino all’alto medioevo(1).
Anche la vetta del Dragnone, occupata da un santuario mariano, è stata interesse di scavi archeologici che hanno rilevato presenze antropiche coeve a quelle del Castellaro.
I reperti, sfortunatamente, si trovavano in giacimento secondario, probabilmente dovuto all’escavazione di terreno per costruire le fondamenta del santuario, quindi non è stato possibile effettuare una stratigrafia efficiente(2).
In ogni caso, è stato importante poter verificare l’ipotesi, già da tempo formulata, di un’attività umana sul monte.
Il nostro interesse ricade, infatti, sul rapporto corrente tra questi dati archeologici e l’esistenza di un sacrario mariano con le relative tradizioni.
L’edificio ha subìto, nel tempo, varie ricostruzioni, di cui l’ultima nel 1856, come testimonia l’incisione sul portale d’accesso, su una preesistente costruzione del XVIII secolo, a sua volta sorta su una base più antica.
In questo caso la tradizione orale non ci parla di apparizioni della Madonna ma riporta una ritualità molto più antica.
Si tratta dell’annuale processione al santuario della Madonna del Dragnone che si svolge, ancor oggi, l’8 settembre. Un tempo, tuttavia, l’evento non si risolveva in una semplice processione: ogni partecipante, infatti, portava con sé un ramo d’albero (alcuni dicono di cerro) che, durante la salita, veniva piantato in un pascolo insieme a tutti gli altri per formare un cerchio nel quale, dopo la messa, nel pomeriggio, i fedeli si sarebbero radunati per mangiare e fare giochi in compagnia(3).
Estremamente rilevante per la nostra ricerca è la presenza di questo circolo fatto di rami d’albero, quasi un cerchio magico all’interno del quale la comunità si sente protetta e può darsi allo svago senza timori. Questo rituale simbolico non fa sicuramente parte del bagaglio tradizionale cristiano. Sembra, invece, una tradizione dalle origini ben più antiche, frutto di una cultura religiosa di tipo sciamanico.
La figura del cerchio sacro, infatti, è fortemente legata al personaggio dello sciamano poiché è lo strumento che gli permette sia di entrare in contatto con il divino, sia di proteggersi da esso. Nell’ambito delle scienze occulte, il cerchio rappresenta un’isola protetta, all’interno della quale l’evocatore può difendersi dal potere ultraterreno di ciò che viene evocato.
In ambito strettamente celtico, la tradizione riporta che un cerchio, formato da un ramo d’albero piegato, servì all’eroe Cùchulainn per fermare l’assalto dei nemici alla sua patria(4).
Invece, parlando più generalmente di civiltà celto/ligure, ci accorgiamo di come il cerchio sia spesso rappresentato nelle incisioni e nelle opere megalitiche. Figure circolari o coppelle, infatti, rappresentano buona parte del corpus artistico rupestre ligure e, sebbene le originali disposizioni siano andate disperse, il cerchio è un simbolo centrale in molti monumenti megalitici italiani.
Inoltre, la figura del druido, comune ai Celti e ai Galli, entrambi "vicini" dei Liguri, è sicuramente frutto di una cultura dalle basi sciamaniche e, per molti versi, ricalca le funzioni spirituali dello sciamano stesso.
L’etimologia della parola "druido", tra l’altro, sembra derivare dal termine sassone dru wis, con il significato di conoscenza, in cui la parola wis indica l’albero o, più generalmente, il legno.
È assai probabile, quindi, che il rituale che accompagnava, fino al primo dopoguerra, la processione in vetta al Dragnone fosse di origine pre-romanica, verosimilmente di derivazione celtica, tanto importante per le genti liguri del passato che, nonostante la cristianizzazione, è riuscito a sopravvivere fino al terzo millennio.
Possiamo ipotizzare, quindi, un luogo di culto molto antico sul monte Dragnone, legato forse al preistorico culto delle cime.
Di tale culto si è parlato molto negli ultimi cinquant’anni e l’ipotesi sembra ormai consolidata, vista la densità geografica di testimonianze in tutto il territorio che era stato dei liguri nell’antichità.
A rafforzare le ipotesi in questo senso per il Dragnone, i reperti rinvenuti sulla sommità, poco distante dal santuario, sono riconducibili ad artefatti votivi(5), evidente traccia di una antica associazione del monte a qualche divinità.
In Liguria, come si è detto, molte cime erano soggette a venerazione, già a partire dalla preistoria(6) e l’intera catena appenninica dovrebbe il suo nome a Pen, dio celto/ligure delle vette, ipotesi basata sulla denominazione "in alpe pennino" della carta Peutingeriana.
In questo senso, ci è di sostegno una leggenda antica, che narra di un’età lontanissima in cui il Dragnone e il Castellaro non erano divisi come ora bensì uniti e, insieme ad un altro monte poco distante (attualmente nel comune di Zeri), formavano un massiccio unico chiamato Monte Fiorito. Gli uomini vivevano su questo monte dai caratteristici prati sempre in fiore, spensierati, in una sorta di età dell’oro in cui non c’erano sofferenze, disuguaglianze, malattie ecc.
Questo paradiso terrestre finì per opera del Diavolo (ovviamente, introdotto dopo la cristianizzazione della leggenda) che, in un’apocalissi orogenetica, divise con una zampata il Monte Fiorito e lo ridusse così come lo conosciamo oggi.
La leggenda, dal sapore di fiaba, ci indica due dati importantissimi: il primo è la sacralità del monte, collegato al benessere paradisiaco e all’intrinseca immortalità, insiti nel concetto universale di età dell’oro. Una sacralità che già la leggenda ci indica come antichissima.
Il secondo è l’insediamento umano sul monte. La storia ci dice, infatti, che gli uomini vivevano su questo monte. Tale riferimento potrebbe derivare dalla coscienza latente e antica che quel luogo era, una volta, dimora del popolo che, in seguito, fondò i nuclei abitativi sottostanti. Questi dati ci incoraggiano nell’ipotesi di un insediamento preistorico sommitale sul Dragnone che, se non era a carattere abitativo, poteva almeno essere di natura religiosa o in qualche modo sacra.
In questo caso, purtroppo, la toponimia non ci è d’aiuto poiché il significato del toponimo "Dragnone", di probabile origine celtica, è attualmente sconosciuto, mentre il toponimo "Cornia", l’antico nome con cui veniva chiamata la zona, deriverebbe dalla radice non-indoeuropea karr-, con il significato di durezza o forza, il che non influisce particolarmente sulla nostra ricerca.
Nonostante ciò, e grazie a quanto detto, si può comunque ipotizzare con una certa sicurezza che il Dragnone fosse, per i Liguri, un importante punto di riferimento spirituale. Non a caso, poco lontano dal monte è stata ritrovata la famosa statua-stele n° 1, di cui si è parlato nella Premessa di questo libro.
È stato ipotizzato che tale stele appartenga originariamente al gruppo A (III/II millennio a.C.) ma che sia stata rimaneggiata in tempi più recenti, tanto da indurre gli studiosi ad associarla al
gruppo C (Età del Ferro)(7).
In particolare, l’iscrizione in caratteri etruschi scolpita sul lato sinistro della stele viene considerata, in ordine di tempo, l’ultima traccia di lavorazione antropica sul monumento, risalente forse al IV/III secolo a.C. circa.
Su questa iscrizione, che in caratteri latini possiamo riportare come "mezunemunius", sono state formulate diverse ipotesi, molte delle quali alquanto fantasiose, senza riuscire a dare una vera e definitiva interpretazione.
L’unica ipotesi accreditata, fino ad oggi, sostiene che, al di là dell’interpretazione della scritta, essa sia una trascrizione in caratteri etruschi di parole appartenenti alla lingue ligure, di cui si sa poco o niente.
Alcuni studiosi hanno considerato la possibilità che la stele possa essere stata riutilizzata come cippo d’ingresso al bosco sacro di monte Dragnone ma, anche questa affascinante supposizione, non ha potuto avere, per ora, riscontri archeologici certi.
Fatto sta che la sommità del Dragnone, oggi venerata in nome della Madonna, è stata venerata fin da tempi antichissimi, forse anche in relazione a divinità pagane esportate o traslate dal mondo celtico. I nomi di queste divinità sono andati perduti ma ciò che è rimasto, la ritualità del cerchio sacro e le spoglie archeologiche, ci danno una prova importante della loro esistenza e lanciano, ancora una volta, a noi nel presente, un messaggio di conoscenza che ha attraversato i secoli sopravvivendo ad un misterioso, remoto passato.

Note:
(1) AA.VV., Zignago 1: gli insediamenti e il territorio, Genova, CLSCM, 1977(2) Idem
(3) C. Gabrielli Rosi, Leggende e luoghi della paura tra Liguria e Toscana, Firenze, Pacini Editore, 1991(4) J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, Milano, Rizzoli Editore, 2006(5) Fonte: Soprintendenza Archeologica della Liguria(6) M.Giuliani (1964), Monte Burello e il culto ligure delle cime, in Archivio Storico per le Provincie Parmensi, serie IV, n. XVI, pp.39-47(7) A. C. Ambrosi, Corpus delle statue-stele lunigianesi, Borfighera, Ist. Internaz. di Studi Liguri, 1972


Monte Dragnone visto da Beverone

Monte Dragnone e Monte Castellaro. In basso la Gruzza di Vezzanelli


Il Santuario di N.S. del Dragnone visto da Monte Castellaro (in primo piano)