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mercoledì 9 febbraio 2011

Antichi luoghi di culto in Liguria 9


Caranza: la Rennes-le-Château di Liguria

Rennes-le-Château, nome noto a chiunque si interessi di templarismo e di misteri, è una cittadina rurale della Languedoc, nel sud-ovest della Francia. Molte, troppe, leggende sono state costruite intorno a questo borgo, alcune volontariamente falsificate, altre dovute solo all’ignoranza e all’aberrazione romanzesca di qualche cantastorie internazionale.
Si è detto che qui si trova il Santo Graal, custodito da una società segreta, si è detto che Gesù, non morto sulla croce, dopo essersi sposato con Maddalena (!) sia emigrato qui per fondare una nuova dinastia, si è favoleggiato di un prete con inclinazioni esoteriche, insomma, si è distorto e infangato più che mai tutto ciò che di vero e storico ci può essere a Rennes.
In ogni caso, al di là di tutte le teorie fittizie, che non ci interessano, possiamo identificare un fatto storicamente avvenuto.
Nel 1891, durante i lavori di restauro alla chiesa di Santa Maddalena, è stato trovato qualcosa. Non si tratta di un tesoro, come vociferano i romanzieri, ma di alcuni reperti archeologici, eloquenti sul passato della chiesa. Il parroco Saunier ha dichiarato, a quanto sembra, di aver trovato un’antica tomba e altri oggetti coevi, di cui non si è mai precisata, però, la quantità e la tipologia. Comunque, alla fine dei restauri, pare proprio per volontà del parroco, sul portale d’accesso alla chiesa fu scolpita questa frase, tratta dalla Bibbia (Genesi, 28, 17): "Terribilis est locus iste. Haec domus dei est et porta coeli".
Ma che cosa accomuna l’ormai nota Rennes con l’anonimo borgo di Caranza, presso Varese Ligure, minuscolo insediamento ai piedi del Passo di Cento Croci?
Proprio quella frase. L’incisione "Terribilis est locus iste", infatti, si trova sull’architrave della porta sud (murata) della chiesa di San Lorenzo.
Questa chiesa è alquanto atipica. Imponente, alta, sembra non avere in comune granchè con il paese che, invece, è un esiguo agglomerato di casette rurali. La chiesa si presenta così dopo la ricostruzione del 1935, ricordata in una lapide, avvenuta 40 anni dopo la sua distruzione a causa di un violento terremoto, verso la fine del XIX secolo. A una trentina di metri a sud della chiesa (di fronte al portale di cui sopra) si trova il campanile, molto alto, di fattura popolare e appena restaurato.
Sembra strano trovare una chiesa così imponente in un borgo così piccolo, con la citazione biblica incisa su una porta secondaria murata e il campanile così tanto discosto. Ma andiamo con ordine.
Intanto, è necessario precisare che la scritta "Terribilis est locus iste", all’apparenza tanto inquietante, non compare solo a Rennes e a Caranza ma in molte altre chiese italiane ed europee. Si tratta di un passo della Genesi, una citazione del tutto plausibile in una chiesa. Tuttavia, tale passo narra un episodio che, per la nostra indagine, si rivela denso di significato. Riportiamo, per lasciare che lo scritto parli da sé, l’intero brano biblico:
 Questo episodio della vita di Giacobbe necessita di essere spiegato in quanto, a causa dell’accostamento confusionario di mitologie differenti, tipico dell’Antico Testamento, risulta alquanto complicato. Innanzitutto bisogna precisare che, nonostante la maggioranza degli esegeti biblici si ostini a non ammetterlo, Elohim non è un appellativo riferibile a Jahweh il quale costituisce, invece, il nome proprio di Dio, il famoso tetragrammaton ebraico. Elohim è il plurale di Eloah, che significa genericamente divinità ma che, nella tradizione ebraica, indica spesso angeli, creature divine e, saltuariamente, non divine. È chiaro che si tratta di un termine ancestrale dotato di diversi significati. In ogni caso - ed è ben chiaro nel passo sopra citato - Elohim è un’entità differente da Jahweh che, invece, è il "dio di Abrahamo".
"Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Harran. Capitò allora in un certo luogo, dove si fermò per pernottare, perché il sole era tramontato; prese una delle pietre, del santuario, se la pose come cuscino del suo capo e si coricò in quel santuario. E sognò di vedere una rampa che poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco: gli angeli di Elohim che salivano e discendevano per essa. Ed ecco che Jahweh stava sopra di lui, dicendogli: «Io Jahweh sono il Dio di Abrahamo, tuo padre e il Dio di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e al tuo seme. E il tuo seme sarà come la polvere della terra e ti spargerai a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E saranno benedette in te tutte le famiglie della terra e nel tuo seme. Ed ecco che io sono con te e ti custodirò dovunque andrai e poi ti farò ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò se prima non avrò fatto tutto quello che ho detto a te». Allora Giacobbe si svegliò dal suo sonno e disse: «Veramente c’è Jahweh in questo luogo ed io non lo sapevo!» Poi ebbe paura e disse: «Com’è terribile questo luogo! Questa è nientemeno che una Casa di Elohim e la porta dei Cieli». Si alzò Giacobbe alla mattina, prese la pietra che si era posta come cuscino del suo capo e la rizzò come stele sacra e versò olio sulla sua sommità. Allora chiamò quel luogo Bet-El (però prima il nome della città era Luz). E Giacobbe fece voto dicendo: «Se Elohim sarà con me e mi custodirà in questo viaggio che io sto facendo e mi darà pane per mangiare e vesti per vestire, e se ritornerò in pace nella terra di mio padre, allora Jahweh mi sarà come Elohim. E questa pietra che io ho eretto come una stele sacra sarà una casa di Elohim e di tutto quello che mi darai io ti offrirò certamente la libagione»."(1)
Dunque vediamo Giacobbe che, partito dalla città di Bersabea in cui si trovava, si dirige ad Harran, città della Mesopotamia che ospitava un grande centro religioso con relativa ziqqurat. Tuttavia, scesa la sera sul suo cammino, Giacobbe riposa in un "certo luogo" che è un santuario, utilizzando una pietra come cuscino. Il suo sogno divinatorio è, in realtà, una sorta di incubazione, pratica frequente nell’antichità, che consisteva nell’addormentarsi in un tempio o altro luogo sacro per entrare in contatto con la divinità locale. Tale rito era consueto già in Grecia e in Egitto, oltre che presso alcuni popoli orientali. Durante l’incubazione, Giacobbe incontra Jahweh, dio di suo padre (ma, evidentemente, non suo) che gli promette prosperità e protezione. Al risveglio dal sogno, egli compie un rituale estremamente significativo: erige la pietra su cui aveva dormito come "stele sacra" e la unge per consacrarla. Questo è il punto cruciale dell’episodio che, oltre a rivelare una delle tante pratiche pagane delle antiche tribù seminomadi giudee, rappresenta il diretto collegamento con Caranza, Rennes e probabilmente altre chiese simili.
Come ormai sappiamo, infatti, la maggioranza delle chiese cristiane veniva edificata sopra i resti di aree sacre pagane. Ciò avveniva o per motivi di sincretismo, convertendo gli antichi luoghi sacri che i popoli pagani non avevano affatto intenzione di abbandonare, oppure per schiacciare, opprimere e chiudere (in una tomba) gli antichi culti e le loro numerose divinità e superstizioni.
Frequentemente, in Lunigiana come in altre regioni, nell’altare della chiesa venivano murati gli idoli che si intendeva soppiantare, ed infatti nel solo territorio lunigianese troviamo altari che racchiudono statue-stele, menhir, tombe a cassetta o addirittura ceppi di alberi sacri.
Ebbene, non è possibile che, durante i lavori di restauro a Rennes e di ricostruzione a Caranza, siano venuti alla luce resti di idoli pagani - magari pietre sacre - che erano stati murati nelle fondamenta della chiesa? Verosimilmente si.
A Rennes, come, detto, il parroco Saunier registrò il ritrovamento di una tomba e di alcuni resti antichi. A Caranza, nonostante l’assenza di documentazione, è assolutamente plausibile che qualcosa sia stato ritrovato, dal momento che in zona, poco distante dall’abitato, sono presenti i resti di un castellaro preistorico, che testimoniano la presenza di una antica comunità.
Detto questo, è facile immaginare come ai curati delle due parrocchie, vedendo i reperti emersi dal suolo, sia venuto in mente il passo della Genesi relativo all’erezione di una pietra sacra da parte di Giacobbe e questo, forse, avrebbe motivato la scritta murata sull’ingresso. Il significato della citazione può essere duplice: da un lato potrebbe essere interpretato come trionfo del "dio vero" già presente ("c’è Jahweh in questo luogo ed io non lo sapevo!") sui falsi idoli, schiacciati dal peso enorme dell’imponente chiesa. D’altro canto, la citazione potrebbe anche rivelare un’errata interpretazione dei ritrovamenti da parte dei curati, i quali avrebbero creduto di trovarsi di fronte alla pietra di fondazione del tempio e, pensando che non fosse inusuale fondare chiese nel modo descritto in Genesi 28,17, abbiano scelto proprio la frase impaurita di Giacobbe per celebrare la scoperta. Quest’ultima ipotesi, tuttavia, sembra alquanto improbabile.
A comprovare la prima ipotesi, invece, rimane l’interpretazione della parte finale del brano citato, in cui Giacobbe promette, non prima di aver enunciato una serie di condizioni, di costruire sulla pietra un tempio e di dedicarlo a Jahweh e solo allora "Jahweh mi sarà come Elohim".
Giacobbe è fedele ad altre divinità (Elohim) ma, se Jahweh adempirà realmente alle sue promesse, egli lo farà rientrare nel suo pantheon personale ("mi sarà come Elohim"). Quindi l’episodio si riferisce ad una sorta di conversione.
Inoltre, il nome scelto da Giacobbe per battezzare il luogo, Bet-El, deriva secondo alcuni studiosi dal nome di una divinità adorata in ambito semitico, chiamata Bêt’ili.(2)
Da notare, infine, che il rituale di consacrazione della pietra incubazionale (in ebraico massebah) è stato proibito, in seguito, dalla legge deuteronomistica.
Anche questi ultimi dati fanno pensare certamente al ritrovamento di oggetti di culto pagano, più che a suppellettili paleocristiane.
Questa potrebbe essere, quindi, la spiegazione dell’enigmatica scritta incisa a Rennes-le-Château e a Caranza. Per quanto riguarda quest’ultima, però, rimane difficile spiegare la strana architettura della chiesa e il perché la porta sud sia stata murata. Forse, il fatto che l’iscrizione sia rivolta verso sud è indizio che proprio lì, nel cortile che la separa dal campanile, si cela il passato delle genti liguri che abitarono Caranza. Forse, lo stesso campanile è stato edificato, come spesso si riscontra, sulla base di una torre o altro edifico preesistente, e questo spiegherebbe la sua posizione decisamente insolita.
In ogni caso, la chiesa di San Lorenzo di Caranza meriterebbe uno studio più approfondito, anche a partire da alcuni enigmatici bassorilievi murati nella canonica, di cui si trovano eguali solo nel vicino borgo di Porciorasco, abitato gemello di Caranza, a pochi chilometri di distanza, e che sembrerebbero essere simboli templari.(3)

Note:
(1) E. Testa, Genesi, Milano, Edizioni San Paolo, 1999
(2) È tuttavia doveroso precisare che, in lingua ebraica, Bet-El significa "Luogo di El".
(3) Enrico Calzolari, Lunigiana terra di Templari, Marna Editrice



L'esiguo abitato di Caranza con l'imponente chiesa parrocchiale

Caranza - Architrave della canonica


Caranza - Iscrizione "Terribilis est locus iste"

venerdì 5 novembre 2010

Antichi luoghi di culto in Liguria 2

L’antico santuario sulla vetta del monte Dragnone (Zignago)

Il monte Dragnone è un’imponente altura che, emergendo dalla valle del torrente Gravegnola, affluente di sinistra del Vara, si innalza fino a raggiungere i 1011 metri di altezza.
È inconfondibile a causa della sua forma perfettamente conica, i cui versanti sono interamente ricoperti da una pineta, tranne alcuni tratti, il più ampio dei quali a nord, che sono stati soggetti, fin da tempi immemori, ad una continua erosione che ha causato grandi franamenti.
Le pareti franate appaiono di un insolito colore grigio-verde, siccome la terra dilavata ha lasciato scoperto uno spesso strato di serpentini più resistenti ma che stanno comunque, inesorabilmente, scivolando a valle.
Ai piedi del monte si trova l’abitato di Pieve, da cui si diparte l’unica strada - sterrata - per arrivare in cima. Dalla vetta si può godere di una vista impressionante: verso est, la foce del Magra, il monte Caprione e il Golfo della Spezia; verso sud, l’intero crinale delle Cinque Terre e la media Val di Vara; verso ovest, il Passo del Bracco, l’alta Val di Vara e, a volte, il promontorio di Portofino; verso nord, invece, il vicino spartiacque tra Val di Vara e Val di Magra, lo zerasco, il Passo dei Due Santi e il pontremolese.
A un centinaio di metri dal versante nord del Dragnone si trova il monte Castellaro di cui, a partire dal toponimo, possiamo intuire l’antica funzione. Recentemente, infatti, scavi archeologici condotti sulla sommità di questo massiccio (soggetto ad una rapida erosione), hanno portato alla luce un importante insediamento antropico dell’età del bronzo finale, oltre a stratificazioni successive, fino all’alto medioevo(1).
Anche la vetta del Dragnone, occupata da un santuario mariano, è stata interesse di scavi archeologici che hanno rilevato presenze antropiche coeve a quelle del Castellaro.
I reperti, sfortunatamente, si trovavano in giacimento secondario, probabilmente dovuto all’escavazione di terreno per costruire le fondamenta del santuario, quindi non è stato possibile effettuare una stratigrafia efficiente(2).
In ogni caso, è stato importante poter verificare l’ipotesi, già da tempo formulata, di un’attività umana sul monte.
Il nostro interesse ricade, infatti, sul rapporto corrente tra questi dati archeologici e l’esistenza di un sacrario mariano con le relative tradizioni.
L’edificio ha subìto, nel tempo, varie ricostruzioni, di cui l’ultima nel 1856, come testimonia l’incisione sul portale d’accesso, su una preesistente costruzione del XVIII secolo, a sua volta sorta su una base più antica.
In questo caso la tradizione orale non ci parla di apparizioni della Madonna ma riporta una ritualità molto più antica.
Si tratta dell’annuale processione al santuario della Madonna del Dragnone che si svolge, ancor oggi, l’8 settembre. Un tempo, tuttavia, l’evento non si risolveva in una semplice processione: ogni partecipante, infatti, portava con sé un ramo d’albero (alcuni dicono di cerro) che, durante la salita, veniva piantato in un pascolo insieme a tutti gli altri per formare un cerchio nel quale, dopo la messa, nel pomeriggio, i fedeli si sarebbero radunati per mangiare e fare giochi in compagnia(3).
Estremamente rilevante per la nostra ricerca è la presenza di questo circolo fatto di rami d’albero, quasi un cerchio magico all’interno del quale la comunità si sente protetta e può darsi allo svago senza timori. Questo rituale simbolico non fa sicuramente parte del bagaglio tradizionale cristiano. Sembra, invece, una tradizione dalle origini ben più antiche, frutto di una cultura religiosa di tipo sciamanico.
La figura del cerchio sacro, infatti, è fortemente legata al personaggio dello sciamano poiché è lo strumento che gli permette sia di entrare in contatto con il divino, sia di proteggersi da esso. Nell’ambito delle scienze occulte, il cerchio rappresenta un’isola protetta, all’interno della quale l’evocatore può difendersi dal potere ultraterreno di ciò che viene evocato.
In ambito strettamente celtico, la tradizione riporta che un cerchio, formato da un ramo d’albero piegato, servì all’eroe Cùchulainn per fermare l’assalto dei nemici alla sua patria(4).
Invece, parlando più generalmente di civiltà celto/ligure, ci accorgiamo di come il cerchio sia spesso rappresentato nelle incisioni e nelle opere megalitiche. Figure circolari o coppelle, infatti, rappresentano buona parte del corpus artistico rupestre ligure e, sebbene le originali disposizioni siano andate disperse, il cerchio è un simbolo centrale in molti monumenti megalitici italiani.
Inoltre, la figura del druido, comune ai Celti e ai Galli, entrambi "vicini" dei Liguri, è sicuramente frutto di una cultura dalle basi sciamaniche e, per molti versi, ricalca le funzioni spirituali dello sciamano stesso.
L’etimologia della parola "druido", tra l’altro, sembra derivare dal termine sassone dru wis, con il significato di conoscenza, in cui la parola wis indica l’albero o, più generalmente, il legno.
È assai probabile, quindi, che il rituale che accompagnava, fino al primo dopoguerra, la processione in vetta al Dragnone fosse di origine pre-romanica, verosimilmente di derivazione celtica, tanto importante per le genti liguri del passato che, nonostante la cristianizzazione, è riuscito a sopravvivere fino al terzo millennio.
Possiamo ipotizzare, quindi, un luogo di culto molto antico sul monte Dragnone, legato forse al preistorico culto delle cime.
Di tale culto si è parlato molto negli ultimi cinquant’anni e l’ipotesi sembra ormai consolidata, vista la densità geografica di testimonianze in tutto il territorio che era stato dei liguri nell’antichità.
A rafforzare le ipotesi in questo senso per il Dragnone, i reperti rinvenuti sulla sommità, poco distante dal santuario, sono riconducibili ad artefatti votivi(5), evidente traccia di una antica associazione del monte a qualche divinità.
In Liguria, come si è detto, molte cime erano soggette a venerazione, già a partire dalla preistoria(6) e l’intera catena appenninica dovrebbe il suo nome a Pen, dio celto/ligure delle vette, ipotesi basata sulla denominazione "in alpe pennino" della carta Peutingeriana.
In questo senso, ci è di sostegno una leggenda antica, che narra di un’età lontanissima in cui il Dragnone e il Castellaro non erano divisi come ora bensì uniti e, insieme ad un altro monte poco distante (attualmente nel comune di Zeri), formavano un massiccio unico chiamato Monte Fiorito. Gli uomini vivevano su questo monte dai caratteristici prati sempre in fiore, spensierati, in una sorta di età dell’oro in cui non c’erano sofferenze, disuguaglianze, malattie ecc.
Questo paradiso terrestre finì per opera del Diavolo (ovviamente, introdotto dopo la cristianizzazione della leggenda) che, in un’apocalissi orogenetica, divise con una zampata il Monte Fiorito e lo ridusse così come lo conosciamo oggi.
La leggenda, dal sapore di fiaba, ci indica due dati importantissimi: il primo è la sacralità del monte, collegato al benessere paradisiaco e all’intrinseca immortalità, insiti nel concetto universale di età dell’oro. Una sacralità che già la leggenda ci indica come antichissima.
Il secondo è l’insediamento umano sul monte. La storia ci dice, infatti, che gli uomini vivevano su questo monte. Tale riferimento potrebbe derivare dalla coscienza latente e antica che quel luogo era, una volta, dimora del popolo che, in seguito, fondò i nuclei abitativi sottostanti. Questi dati ci incoraggiano nell’ipotesi di un insediamento preistorico sommitale sul Dragnone che, se non era a carattere abitativo, poteva almeno essere di natura religiosa o in qualche modo sacra.
In questo caso, purtroppo, la toponimia non ci è d’aiuto poiché il significato del toponimo "Dragnone", di probabile origine celtica, è attualmente sconosciuto, mentre il toponimo "Cornia", l’antico nome con cui veniva chiamata la zona, deriverebbe dalla radice non-indoeuropea karr-, con il significato di durezza o forza, il che non influisce particolarmente sulla nostra ricerca.
Nonostante ciò, e grazie a quanto detto, si può comunque ipotizzare con una certa sicurezza che il Dragnone fosse, per i Liguri, un importante punto di riferimento spirituale. Non a caso, poco lontano dal monte è stata ritrovata la famosa statua-stele n° 1, di cui si è parlato nella Premessa di questo libro.
È stato ipotizzato che tale stele appartenga originariamente al gruppo A (III/II millennio a.C.) ma che sia stata rimaneggiata in tempi più recenti, tanto da indurre gli studiosi ad associarla al
gruppo C (Età del Ferro)(7).
In particolare, l’iscrizione in caratteri etruschi scolpita sul lato sinistro della stele viene considerata, in ordine di tempo, l’ultima traccia di lavorazione antropica sul monumento, risalente forse al IV/III secolo a.C. circa.
Su questa iscrizione, che in caratteri latini possiamo riportare come "mezunemunius", sono state formulate diverse ipotesi, molte delle quali alquanto fantasiose, senza riuscire a dare una vera e definitiva interpretazione.
L’unica ipotesi accreditata, fino ad oggi, sostiene che, al di là dell’interpretazione della scritta, essa sia una trascrizione in caratteri etruschi di parole appartenenti alla lingue ligure, di cui si sa poco o niente.
Alcuni studiosi hanno considerato la possibilità che la stele possa essere stata riutilizzata come cippo d’ingresso al bosco sacro di monte Dragnone ma, anche questa affascinante supposizione, non ha potuto avere, per ora, riscontri archeologici certi.
Fatto sta che la sommità del Dragnone, oggi venerata in nome della Madonna, è stata venerata fin da tempi antichissimi, forse anche in relazione a divinità pagane esportate o traslate dal mondo celtico. I nomi di queste divinità sono andati perduti ma ciò che è rimasto, la ritualità del cerchio sacro e le spoglie archeologiche, ci danno una prova importante della loro esistenza e lanciano, ancora una volta, a noi nel presente, un messaggio di conoscenza che ha attraversato i secoli sopravvivendo ad un misterioso, remoto passato.

Note:
(1) AA.VV., Zignago 1: gli insediamenti e il territorio, Genova, CLSCM, 1977(2) Idem
(3) C. Gabrielli Rosi, Leggende e luoghi della paura tra Liguria e Toscana, Firenze, Pacini Editore, 1991(4) J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, Milano, Rizzoli Editore, 2006(5) Fonte: Soprintendenza Archeologica della Liguria(6) M.Giuliani (1964), Monte Burello e il culto ligure delle cime, in Archivio Storico per le Provincie Parmensi, serie IV, n. XVI, pp.39-47(7) A. C. Ambrosi, Corpus delle statue-stele lunigianesi, Borfighera, Ist. Internaz. di Studi Liguri, 1972


Monte Dragnone visto da Beverone

Monte Dragnone e Monte Castellaro. In basso la Gruzza di Vezzanelli


Il Santuario di N.S. del Dragnone visto da Monte Castellaro (in primo piano)