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domenica 28 novembre 2010

Antichi luoghi di culto in Liguria 4

Il monte Bardellone, le sue valli
ed i suoi antichi itinerari
 
Che sul monte Bardellone ci sia
Non è ben chiaro cosa: una sensazione, un
Certo è che, se ci si capita in un giorno umido, con le cortecce degli alberi nere d
Poi, tutto ad un tratto, finisce. Si esce dalla nuvola e si ritorna nella dimensione terrena.
Anche ad andarci in una giornata luminosa di sole, l
Non è difficile immaginare, quindi, perché il Bardellone sia stato nella preistoria, nella storia e sia fino ai giorni nostri un luogo colmo di fascino e di mistero.
Il territorio indicato con il toponimo “Bardellone” - che deriverebbe dalla radice celto/ligure bar, con il significato di “luogo fortificato” - è, in realtà, molto vasto, siccome comprende l’intero massiccio, dalla forma di acrocoro, e le valli formate dal primo tratto dei torrenti che da esso nascono.
È ormai opinione comune di molti studiosi che il monte Bardellone sia stato la “culla” della civiltà ligure per quanto concerne il territorio della media Val di Vara e di un ampio tratto di costa, tra Bonassola e Monterosso.
La sua posizione topografica è fondamentale poiché, disposto ad anfiteatro, concavo verso il mare, rappresenta il punto di partenza naturale per risalire dalla baia di Levanto verso l’entroterra, fa da spartiacque tra la costa e le valli interne e permette, grazie al suo ampio crinale, la comoda connessione di sentieri provenienti dalle valli laterali alla strada N-S principale.
Per questi motivi, dalla preistoria fino al primo dopoguerra, il Bardellone ha conosciuto una frequentazione antropica assidua, seppur senza continuità temporale.
Il primo insediamento risale, probabilmente, all’Età del Bronzo e, dai pochi reperti rinvenuti, doveva trattarsi prevalentemente di costruzioni funebri, quindi è possibile ipotizzare un primo utilizzo della cima come necropoli o comunque legato alla morte o al culto dei morti.
Il primo reperto ufficialmente registrato, infatti, fu, nel 1921 in località Campodonia, una splendida tomba a cassetta litica di forma grosso modo cubica, fatta di sei lastre di pietra scistosa e contenente due urne cinerarie con ciotole di copertura, un’altra ciotola e una piccola olla, tutto in ceramica, oltre a una fibula, una spirale e una daga in bronzo.
La tomba, però, non sarebbe l’unica rinvenuta in zona. Varie scoperte non ufficializzate sono, infatti, ricordate nella memoria orale, soprattutto nella zona circostante la frazione di Albereto.
Albereto è stato un importante centro antropico dell’antichità, espanso e commerciale, fino alla sua tragica distruzione da parte del re longobardo Rotari, nel 643. Costui, seguito dal suo feroce esercito, percorse l’intera Liguria e, attraverso l’antica strada di mezza costa delle Cinque Terre, saccheggiò e rase al suolo ogni borgo sul suo cammino fino a Genova, che conquistò in breve tempo.
Forse Albereto era davvero uno stanziamento preistorico con annessa necropoli, collegabile forse con l’insediamento sommitale del Castellaro del Bardellone. I reperti trovati sulla cima del monte, a circa 650 metri s.l.m., sono infatti riconducibili ad un’importante fortificazione preistorica.
Nella Val Marveia (toponimo impossibile da non associare subito alla Vallée des Merveilles del Colle di Tenda), a un paio di chilometri verso est rispetto alla cima del Bardellone, sono state ritrovate incisioni rupestri e la memoria orale vuole proprio questa valle grande centro umano dell’antichità. Le leggende, infatti, parlano di un insediamento abitativo con relativa necropoli nei monti di fronte al borgo di Casale, al di là del torrente omonimo, proprio dove si trova la Val Marveia.
Contando che la densità dei nuclei abitativi preistorici in zona ligure non era elevata, c’è una buona probabilità che la tradizione orale e i ritrovamenti archeologici coincidano collocando, quindi, sulla cima del Bardellone, un’estesa installazione umana abitativa (Albereto), difensiva (Castellaro) e sepolcrale (Val Marveia).
Questa ipotesi è verosimile soprattutto se si pensa alla topografia della zona: la sommità di un monte che domina il mare e l’entroterra, attraverso cui passa un importante itinerario (forse già mercantile), ricco di sorgenti, ottimo come pascolo per il bestiame, con la presenza di cavità carsiche in gran numero (riparo e/o sepolcro). Sembrerebbe un luogo ideale per uno stanziamento ed i ruderi del castellaro e di Albereto ce lo dimostrano.
Quello che ancora manca alla dimostrazione pratica è la necropoli. La memoria orale ne parla e non ha motivo di mentire.
La leggenda narra di una buca scoperta da alcuni boscaioli mentre sradicavano castagni in Val Marveia, che si rivelò essere un labirinto sotterraneo pieno “tombe e strani oggetti”. La storia, probabilmente non molto antica, non presenta particolari aloni di mistero. Sembra piuttosto schietta ed è facile, per noi, immaginare questi boscaioli che, faccia a faccia con sepolture preistoriche, definiscano gli orpelli funebri “strani oggetti”. Pensiamo alle sepolture delle Arene Candide (SV): se i medesimi boscaioli avessero visto, nel buio di un sotterraneo, inquieti e spaventati, mandibole di tasso, minuscole conchiglie forate, strani vasi decorati, corna di cervo levigate, lame di pietra scheggiata e ossa sparse color porpora, cosa avrebbero pensato? Come avrebbero potuto definirle? “Strani oggetti” non è una descrizione molto scientifica ma rende l’idea.
Probabilmente, la leggenda non è tanto fantasiosa. Probabilmente, i fatti sono descritti più o meno come sono accaduti.
Localizzare la scoperta, però, è impossibile. I boscaioli, infatti, si dice presi dalla paura, ostruirono nuovamente l’accesso al sotterraneo e si impegnarono a non rivelarlo a nessuno.
Questo forse è l’esiguo nucleo favolistico del racconto, con evidente intento di scoraggiare eventuali curiosi che volessero mettersi sulle tracce della necropoli. Come nota giustamente il Cavallo, gli abitanti non amano farsi tanta pubblicità.
Fatto sta che il Bardellone, molti secoli dopo, nell’alto medioevo, ha ospitato un castello difensivo e un piccolo borgo: si tratta di Celasco.
Ovviamente vi è una discontinuità evidente tra le due frequentazioni del sito che forse, però, può essere colmata considerando l’abitato di Albereto.
Lo stanziamento preistorico potrebbe essere stato abbandonato verosimilmente alla fine dell’Età del Ferro, mentre la prima frequentazione del castrum di Celasco risale all’XI secolo.
In questa lacuna di oltre un millennio, tuttavia, la presenza umana sul monte è stata sempre forte. Il borgo di Albereto, infatti, contava molte famiglie con struttura sociale agricola, che coltivavano i fertili campi intorno alla sommità del Bardellone, sfruttando spianate artificiali poste in opera dagli abitatori primitivi del luogo.
Anche dopo la devastazione longobarda dell’abitato, i pochi superstiti - che poi fondarono Monterosso - continuarono a frequentare quei luoghi per sfruttarne il terreno, dando all‘attività umana sul monte un certo continuum. Ancora oggi, i campi vengono coltivati da alcuni monterossini, sono sorte numerose casette di pietra e il villaggio di Albereto è andato via via ripopolandosi, anche se non si può parlare di borgo vero e proprio, mancando un agglomerato urbano significativo. Non c’è neanche mai stata una chiesa, apparentemente.
Qualche volta, però, l’apparenza inganna. La tradizione vuole, infatti, che nei pressi di Albereto, un tempo, ci fosse una grande chiesa. Tale edificio avrebbe sostituito, in epoca cristiana, un tempio pagano molto importante e avrebbe ospitato tesori e nobili sepolture. La “Valle della Chiesa” oggi è un roveto arduo e impraticabile per cui non si sono mai fatte adeguate ricerche, eppure, da qualche parte, nascoste dalle spine, le rovine di un tempio antico attendono di essere scoperte.
Certo, non si può basare una ricerca solo su questa scarna fonte orale però, data la toponomastica del luogo e la frequenza di santuari simili in zona, potrebbe sembrare sensato provare a raccogliere più informazioni.
Il Bardellone domina un ampio circondario di monti con relativi santuari ed è, come abbiamo già detto, la strozzatura d’imbuto dei molti itinerari che, dai borghi dell’entroterra, portano sul mare. È possibile, quindi, che la chiesa di cui si narra così pomposamente ad Albereto fosse il risultato della solita conversione cristiana di un santuario pagano che, se è credibile la grande influenza religiosa celtica sugli antichi Liguri, potrebbe essere stato il tempio centrale (forse il famoso mezu nemunuius di cui si è ipotizzato) della zona, da cui si controllava il potere religioso degli altri sacrari minori locali.
Per ora la memoria orale non sembra poterci più aiutare e, comunque, le prove archeologiche sono inaccessibili, come la valle che le custodisce.
qualcosa, nessuno può metterlo in dubbio. intuizione, unenergia. Forse laria è diversa.acqua, facilmente qualche nuvola bassa si arenerà alle cime, creando una visione suggestiva dal sapore magico. Se capita, poi, di percorrere la stretta strada che serpeggia lungo il crinale proprio durante la sosta di una nube, ci si ritrova improvvisamente immersi in uno strano sogno: intorno diventa tutto in bianco e nero e guardando giù, tra i pini morti, là dove dovrebbe esserci il mare, cè solo una voragine lattiginosa da cui filtra appena la luce del sole. La visibilità, ridotta a venti metri, nasconde le curve della strada e, man mano che si prosegue, sembrerà di essere immersi in quella sostanza eterea dal lieve odore dacqua. Non cè nessuno. Un silenzio naturale. Ci si guarda intorno e ci si chiede: Sono ancora nel mondo dei vivi? effetto è sempre stupefacente. Guardando le vette, il verde incredibilmente rigoglioso emette un fiato di bosco che purifica le idee mentre, sopra, il cielo intenso fa spaziare limmaginazione. Guardando giù, invece, i boschi a picco, le vallate incise dai copiosi torrenti, i villaggi sparsi e il bagliore argenteo del mare ritemprano lo sguardo, che ne rimane incantato.

venerdì 12 novembre 2010

Recensione: "L'Acquedotto storico di Genova"

Luciano Rosselli, L’Acquedotto storico di Genova, 2009, Nuova Editrice Genovese



Quanti genovesi sanno da dove proviene l’acqua che sgorga dai loro rubinetti? Quanti si rendono conto di quanto ingegno è stato necessario per progettare il sistema di approvvigionamento idrico della città? Quanti ne conoscono la storia?
Sicuramente Luciano Rosselli la conosce molto bene.
Ma conoscerla non basta, bisogna anche saperla raccontare, spiegandone gli aspetti tecnici, mostrandone i progetti ed i resti e lasciando spazio -perché no?- anche a quel sentimento di nostalgia per le cose belle del passato, che caratterizza fortemente la cultura popolare genovese. Anche in questo di certo Rosselli non difetta.
“L’Acquedotto storico di Genova” è l’eccezionale resoconto di una ricerca titanica, effettuata sia tra la polvere degli archivi storici, tra numerosissimi documenti del passato, sia sul campo, percorrendo ogni singolo metro dell’antico acquedotto della Valle del Bisagno, per scoprirne i segreti, le particolarità e la bellezza. La documentazione è veramente esauriente e completa, e non vi è aspetto dell’acquedotto che non sia toccato: si parte dalla storia, si passa dall’architettura e dalla tecnica idraulica, per arrivare fino all’escursionistica.
Tramite la ricchissima documentazione fotografica a colori, è possibile apprezzare i tanti virtuosismi architettonici che furono impiegati, a partire dal XVII secolo, per migliorare la struttura dell’acquedotto, la cui prima costruzione, romana, risale addirittura al I secolo a.C.
Tra ponti-canale, ponti-sifone, gallerie e percorsi lastricati, l’Autore si addentra nelle anse più recondite delle condotte idrauliche, rintracciando con occhio esperto il susseguirsi delle tracce nel tempo, confrontandole con i documenti storici che conservano i progetti realizzati e quelli non realizzati, spiegando il funzionamento degli apparati e raccontando le vicende umane che riguardano questa incredibile opera.
E, come sempre, Genova stupisce, affascina, sorprende. Perché anche le soluzioni adottate per questo acquedotto sono qualcosa di irripetibile, di tipicamente genovese, di ingegnosamente genovese. E Rosselli, macchina fotografica a tracolla, esplora le infrastrutture, anche le più inaccessibili, come un novello Indiana Jones, per riportarcene l’immagine e permettere anche ai meno avventurosi di osservare e di comprendere il lavoro dell’uomo.
Interessantissima è la parte tecnica e storica, completa di mappe con riferimenti e tabelle che hanno il potere di fissare chiaramente i dati nella memoria. Veramente molto gradita, inoltre, la guida escursionistica completa, che permette di avere ottimi riferimenti per piacevoli e suggestive passeggiate all’insegna della storia urbana. Completa il tutto una completissima tabella cronologica che sintetizza gli ultimi mille anni (!) di storia dell’acquedotto.
Il volume si presenta in una veste editoriale davvero molto curata e corretta, sia dal punto di vista formale che da quello della consultabilità, di cui si godono appieno le immagini grazie ad un’ottima impaginazione ed un formato generoso. Il libro è scritto in modo competente ma non saccente, tecnico ma scorrevole ed entusiasmante, con uno spirito allo stesso tempo di seria ricerca e di avventura urbana e può essere annoverato senza dubbio tra i migliori volumi di archeologia industriale attualmente in circolazione, che nessun appassionato di Storia Ligure o Genovese dovrebbe mancare di esporre nella propria biblioteca.


Recensione: "Sono partiti tutti"

Giovanni Meriana, Sono partiti tutti, 2010, SAGEP



Giovanni Meriana ci racconta le storie che nessuno più racconta. Ci parla dei villaggi delle vette appenniniche e delle loro vicende di isolamento, di solitudine agreste e di tradizione. Luoghi da cui tutti sono fuggiti, chi prima chi dopo, per “vedere il mondo”, per “fare fortuna”. Lo spopolamento delle valli liguri, che ha interessato tutta la prima metà del XX secolo, ha infiacchito l’economia e l’ambiente montano, facendo anche qualche vittima. Il nome di una di queste vittime è Reneusi, il borgo più decaduto ed isolato dell’Appennino genovese, di cui Meriana ci illustra la vita quotidiana, con la familiarità e la commozione di chi l’ha vissuta, seppure nella lontana infanzia. Non è solo un resoconto di cultura materiale, ma è un piccolo e poetico compendio di umanità, che non può fare a meno di stringere un po’ il cuore, se non altro per il fatto che questo passato, che prende qui tinte romanzate, pur non distaccandosi mai dal vero, è ancora molto vicino.
Non esiste nessuna storia ufficiale per Reneusi, per Cerisola e per tutti gli altri villaggi che, come mosche, insidiano le coste fredde dei monti. Allora, basandosi sulle poche informazioni disponibili, Meriana crea una storia senza presunzione, con la semplicità di chi vuole solo restituire all’umanità un angolo di mondo abbandonato, di chi vuole poter dare voce a chi ormai non possiede più fiato.
La storia di Reneusi e della tragedia che ne segnò la fine, così come quella di Cerisola e delle sue anime, insieme a tutti i racconti di cui il libro si compone, emozionano in quanto piccoli avvenimenti, eventi che non ebbero mai risonanza al di fuori del loro piccolo comprensorio. Brevi flash, appunti di microstoria, antropologia, tradizione e un pizzico di critica politica che restituiscono una visione sfaccettata e commovente del rapido passare del tempo e delle cose che restano e che si dissolvono, in quel panorama frastagliato e strano che chiamiamo Liguria.
Questo librò non è solo una raccolta di narrativa ma, come altri dello stesso genere usciti negli ultimi anni, è una piccola risorsa di liguricità scritta con il talento del narratore e con l’attenzione dello studioso.

Antichi luoghi di culto in Liguria 3


Il santuario mariano di Roverano, presso Carrodano
 
Si tratta di uno dei santuari più antichi della Liguria orientale, fondato intorno al 1350, con una storia che è, più che altro, leggenda.
Tale storia ricalca uno schema narrativo utilizzato spessissimo nei racconti di apparizioni mariane, il cui significato esamineremo in seguito.
Il 7 settembre di un anno imprecisato (si dice tra il 1350 e il 1352), due pastorelle, di cui una sordomuta dalla nascita, stavano riposando sotto un ulivo sul monte Roverano, non distante dal piccolo borgo di L’Ago.
Improvvisamente, apparve loro una bellissima signora vestita di azzuro, ovviamente la Madonna che, apostrofando la ragazzina muta, la invitò ad andare a chiamare il parroco di L’Ago e condurlo al suo cospetto. Inutile dire che la pastorella acquistò miracolosamente voce e udito e si recò a chiamare il parroco il quale accorse, insieme a metà della popolazione del borgo, entusiasticamente per vedere la Vergine. Ma la bella signora era già scomparsa.
Da un ulivo, però, pendeva un quadro raffigurante la Madonna col Bambino. Il parroco decise di portarlo nella canonica per sistemarlo, in seguito, nella chiesa paesana ma, il mattino dopo, il dipinto non era più dove l’aveva lasciato e, solo dopo lunghe ricerche, venne rinvenuto sul monte Roverano, appeso al medesimo ulivo del giorno prima.
Fu chiaro, quindi, che era in quel luogo che la Vergine voleva essere venerata e venne subito eretta una cappella che fu poi ampliata varie volte fino alla disposizione attuale, del 1875(1).
Ma c’è anche un altro evento miracoloso che, al contrario dell’apparizione, si ripete tutti gli anni, proprio il 7/8 settembre, durante i festeggiamenti che coinvolgono gli abitanti di L’Ago e Termine: la fioritura eccezionale degli ulivi.
Si dice, infatti, che gli ulivi che circondano il santuario fioriscano miracolosamente durante la processione, completamente fuori stagione.
Quest’ultima tradizione è molto significativa poiché ci permette di fare un’ipotesi interpretativa dell’intera leggenda.
Innanzitutto, la ricorrenza dell’apparizione cade il 7/8 settembre (come la processione al monte Dragnone), data che, secondo il calendario gregoriano, corrisponde alla Natività di Maria e, secondo il costume agricolo, segna la fine dell’estate e dei raccolti.
È del tutto probabile, come abbiamo riscontrato in precedenza, che la Chiesa Cattolica abbia sovrapposto il culto mariano alle festività pagane, per cui la celebrazione della Natività di Maria potrebbe essere stata programmata proprio in quella data per sostituirsi ad un evento rituale precedente, magari di tipo agrario.
La coincidenza di tale periodo con la fine dei raccolti, infatti, sembra un buon indizio in questo senso. Feste agrarie simili sono state celebrate fin dagli albori dell’agricoltura, per cui non sembra strano che i liguri del XIV secolo abbiano voluto la Madonna come nume tutelare di questo particolare momento in cui tutto diventa più precario, si va verso l’inverno e solo il duro lavoro estivo-autunnale può garantire la sufficienza di cibo conservato, nei mesi freddi.
Come già detto per le altre leggende esaminate fin qui, anche questa “Madonna di Roverano” potrebbe essere solo un aggiustamento cristiano di una divinità agreste molto più antica, una grande madre della fertilità, personificazione della terra stessa, che veniva venerata forse nel tentativo di allungare di qualche tempo l’abbondanza della messe oppure, più verosimilmente, come buon auspicio per la primavera successiva in cui la natura, memore della devozione autunnale degli uomini, sarebbe stata generosa nel donare i suoi frutti.
In questo contesto, sembra inserirsi coerentemente la “fioritura miracolosa” degli ulivi che potrebbe essere stata introdotta in tempi lontani, inizialmente come ritualità di tipo simbolico.
Non una reale fioritura ma, forse, un evento in cui i rami di alcuni alberi venivano decorati con rappresentazioni floreali. Oppure i fiori potevano essere dipinti o marchiati sul corpo con colori naturali, tramite stampi, simili alle pintaderas preistoriche.
Tale pratica potrebbe avere avuto lo scopo di “ringraziare” la terra per quanto dato, e “invitarla” a fare altrettanto l’anno successivo, al suo risveglio dal sonno improduttivo dell’inverno.
Questa tradizione potrebbe tranquillamente essere giunta, neanche tanto distorta, fino a noi e, in seguito, collegata al culto della Madonna.
Inoltre, ricordiamo che il fiore può considerarsi, generalmente, un simbolo solare e, quindi, avere una valenza in più nella cultura agricola, in quanto il sole è la conditio sine qua non della crescita delle coltivazioni. Incisioni raffiguranti forme solari al limite del floreale sono state rinvenute, in grande quantità, in tutti i siti rupestri della Liguria.
Notiamo, infine, come il fiore sia collegato per similitudine alla farfalla, simbolo dell’anima slegata dal corpo e, quindi, dello spirito dei defunti.
Ritornando al santuario, comunque, riscontriamo che il toponimo “Roverano” deriva dal latino robur, con il significato di “forza” o “robustezza” ma anche di “quercia”. La rovere, il più famoso tipo di quercia, prende nome proprio da questa radice.
È possibile allora collegare nuovamente il monte Roverano con i culti naturalistici, questa volta dal punto di vista arboreo. La simbologia dell’albero, di cui abbiamo parlato brevemente in precedenza, è, oltre quella di asse del mondo, quella di identificazione con l’uomo. L’albero, come l’uomo, è fatto di un tronco portante, attaccato alla terra con i suoi piedi/radici, che si espande nelle tre dimensioni grazie ai suoi rami, le braccia.
Il monte Roverano è un passaggio obbligato per raggiungere il Passo del Bracco e, quindi, sito su una via di comunicazione importantissima anche nell’antichità. Non è improbabile che fosse un luogo di culto di una certa importanza e che la devozione dei valligiani pre-romani, difficile da estirpare, sia stata “giustificata” dall’apparizione della Madonna che avrebbe, in un certo senso, consacrato uno spazio profano e ne avrebbe resa, quindi, tollerabile la frequentazione.
È probabile che i liguri di oggi, senza nemmeno saperlo, stiano frequentando i luoghi spirituali dell’antichità, così come hanno fatto i loro padri e i loro nonni prima di loro, in una continuità fluida che, seppur cambiando gli oggetti di venerazione, ricalca una spinta spontanea verso certe mete, oppure una tradizione talmente potente da non riuscire ad estinguersi, nonostante i millenni.

Note:
(1) F. M. Bussetti, G. Costa Maura, I Santuari della Liguria, Genova, AGIS, 1980; M. Gamba, Apparizioni Mariane, Udine, Edizioni Segno, 1999


La facciata del Santuario dopo gli ultimi restauri


Il dipinto raffigurante la Vergine con Bambino

venerdì 5 novembre 2010

Antichi luoghi di culto in Liguria 2

L’antico santuario sulla vetta del monte Dragnone (Zignago)

Il monte Dragnone è un’imponente altura che, emergendo dalla valle del torrente Gravegnola, affluente di sinistra del Vara, si innalza fino a raggiungere i 1011 metri di altezza.
È inconfondibile a causa della sua forma perfettamente conica, i cui versanti sono interamente ricoperti da una pineta, tranne alcuni tratti, il più ampio dei quali a nord, che sono stati soggetti, fin da tempi immemori, ad una continua erosione che ha causato grandi franamenti.
Le pareti franate appaiono di un insolito colore grigio-verde, siccome la terra dilavata ha lasciato scoperto uno spesso strato di serpentini più resistenti ma che stanno comunque, inesorabilmente, scivolando a valle.
Ai piedi del monte si trova l’abitato di Pieve, da cui si diparte l’unica strada - sterrata - per arrivare in cima. Dalla vetta si può godere di una vista impressionante: verso est, la foce del Magra, il monte Caprione e il Golfo della Spezia; verso sud, l’intero crinale delle Cinque Terre e la media Val di Vara; verso ovest, il Passo del Bracco, l’alta Val di Vara e, a volte, il promontorio di Portofino; verso nord, invece, il vicino spartiacque tra Val di Vara e Val di Magra, lo zerasco, il Passo dei Due Santi e il pontremolese.
A un centinaio di metri dal versante nord del Dragnone si trova il monte Castellaro di cui, a partire dal toponimo, possiamo intuire l’antica funzione. Recentemente, infatti, scavi archeologici condotti sulla sommità di questo massiccio (soggetto ad una rapida erosione), hanno portato alla luce un importante insediamento antropico dell’età del bronzo finale, oltre a stratificazioni successive, fino all’alto medioevo(1).
Anche la vetta del Dragnone, occupata da un santuario mariano, è stata interesse di scavi archeologici che hanno rilevato presenze antropiche coeve a quelle del Castellaro.
I reperti, sfortunatamente, si trovavano in giacimento secondario, probabilmente dovuto all’escavazione di terreno per costruire le fondamenta del santuario, quindi non è stato possibile effettuare una stratigrafia efficiente(2).
In ogni caso, è stato importante poter verificare l’ipotesi, già da tempo formulata, di un’attività umana sul monte.
Il nostro interesse ricade, infatti, sul rapporto corrente tra questi dati archeologici e l’esistenza di un sacrario mariano con le relative tradizioni.
L’edificio ha subìto, nel tempo, varie ricostruzioni, di cui l’ultima nel 1856, come testimonia l’incisione sul portale d’accesso, su una preesistente costruzione del XVIII secolo, a sua volta sorta su una base più antica.
In questo caso la tradizione orale non ci parla di apparizioni della Madonna ma riporta una ritualità molto più antica.
Si tratta dell’annuale processione al santuario della Madonna del Dragnone che si svolge, ancor oggi, l’8 settembre. Un tempo, tuttavia, l’evento non si risolveva in una semplice processione: ogni partecipante, infatti, portava con sé un ramo d’albero (alcuni dicono di cerro) che, durante la salita, veniva piantato in un pascolo insieme a tutti gli altri per formare un cerchio nel quale, dopo la messa, nel pomeriggio, i fedeli si sarebbero radunati per mangiare e fare giochi in compagnia(3).
Estremamente rilevante per la nostra ricerca è la presenza di questo circolo fatto di rami d’albero, quasi un cerchio magico all’interno del quale la comunità si sente protetta e può darsi allo svago senza timori. Questo rituale simbolico non fa sicuramente parte del bagaglio tradizionale cristiano. Sembra, invece, una tradizione dalle origini ben più antiche, frutto di una cultura religiosa di tipo sciamanico.
La figura del cerchio sacro, infatti, è fortemente legata al personaggio dello sciamano poiché è lo strumento che gli permette sia di entrare in contatto con il divino, sia di proteggersi da esso. Nell’ambito delle scienze occulte, il cerchio rappresenta un’isola protetta, all’interno della quale l’evocatore può difendersi dal potere ultraterreno di ciò che viene evocato.
In ambito strettamente celtico, la tradizione riporta che un cerchio, formato da un ramo d’albero piegato, servì all’eroe Cùchulainn per fermare l’assalto dei nemici alla sua patria(4).
Invece, parlando più generalmente di civiltà celto/ligure, ci accorgiamo di come il cerchio sia spesso rappresentato nelle incisioni e nelle opere megalitiche. Figure circolari o coppelle, infatti, rappresentano buona parte del corpus artistico rupestre ligure e, sebbene le originali disposizioni siano andate disperse, il cerchio è un simbolo centrale in molti monumenti megalitici italiani.
Inoltre, la figura del druido, comune ai Celti e ai Galli, entrambi "vicini" dei Liguri, è sicuramente frutto di una cultura dalle basi sciamaniche e, per molti versi, ricalca le funzioni spirituali dello sciamano stesso.
L’etimologia della parola "druido", tra l’altro, sembra derivare dal termine sassone dru wis, con il significato di conoscenza, in cui la parola wis indica l’albero o, più generalmente, il legno.
È assai probabile, quindi, che il rituale che accompagnava, fino al primo dopoguerra, la processione in vetta al Dragnone fosse di origine pre-romanica, verosimilmente di derivazione celtica, tanto importante per le genti liguri del passato che, nonostante la cristianizzazione, è riuscito a sopravvivere fino al terzo millennio.
Possiamo ipotizzare, quindi, un luogo di culto molto antico sul monte Dragnone, legato forse al preistorico culto delle cime.
Di tale culto si è parlato molto negli ultimi cinquant’anni e l’ipotesi sembra ormai consolidata, vista la densità geografica di testimonianze in tutto il territorio che era stato dei liguri nell’antichità.
A rafforzare le ipotesi in questo senso per il Dragnone, i reperti rinvenuti sulla sommità, poco distante dal santuario, sono riconducibili ad artefatti votivi(5), evidente traccia di una antica associazione del monte a qualche divinità.
In Liguria, come si è detto, molte cime erano soggette a venerazione, già a partire dalla preistoria(6) e l’intera catena appenninica dovrebbe il suo nome a Pen, dio celto/ligure delle vette, ipotesi basata sulla denominazione "in alpe pennino" della carta Peutingeriana.
In questo senso, ci è di sostegno una leggenda antica, che narra di un’età lontanissima in cui il Dragnone e il Castellaro non erano divisi come ora bensì uniti e, insieme ad un altro monte poco distante (attualmente nel comune di Zeri), formavano un massiccio unico chiamato Monte Fiorito. Gli uomini vivevano su questo monte dai caratteristici prati sempre in fiore, spensierati, in una sorta di età dell’oro in cui non c’erano sofferenze, disuguaglianze, malattie ecc.
Questo paradiso terrestre finì per opera del Diavolo (ovviamente, introdotto dopo la cristianizzazione della leggenda) che, in un’apocalissi orogenetica, divise con una zampata il Monte Fiorito e lo ridusse così come lo conosciamo oggi.
La leggenda, dal sapore di fiaba, ci indica due dati importantissimi: il primo è la sacralità del monte, collegato al benessere paradisiaco e all’intrinseca immortalità, insiti nel concetto universale di età dell’oro. Una sacralità che già la leggenda ci indica come antichissima.
Il secondo è l’insediamento umano sul monte. La storia ci dice, infatti, che gli uomini vivevano su questo monte. Tale riferimento potrebbe derivare dalla coscienza latente e antica che quel luogo era, una volta, dimora del popolo che, in seguito, fondò i nuclei abitativi sottostanti. Questi dati ci incoraggiano nell’ipotesi di un insediamento preistorico sommitale sul Dragnone che, se non era a carattere abitativo, poteva almeno essere di natura religiosa o in qualche modo sacra.
In questo caso, purtroppo, la toponimia non ci è d’aiuto poiché il significato del toponimo "Dragnone", di probabile origine celtica, è attualmente sconosciuto, mentre il toponimo "Cornia", l’antico nome con cui veniva chiamata la zona, deriverebbe dalla radice non-indoeuropea karr-, con il significato di durezza o forza, il che non influisce particolarmente sulla nostra ricerca.
Nonostante ciò, e grazie a quanto detto, si può comunque ipotizzare con una certa sicurezza che il Dragnone fosse, per i Liguri, un importante punto di riferimento spirituale. Non a caso, poco lontano dal monte è stata ritrovata la famosa statua-stele n° 1, di cui si è parlato nella Premessa di questo libro.
È stato ipotizzato che tale stele appartenga originariamente al gruppo A (III/II millennio a.C.) ma che sia stata rimaneggiata in tempi più recenti, tanto da indurre gli studiosi ad associarla al
gruppo C (Età del Ferro)(7).
In particolare, l’iscrizione in caratteri etruschi scolpita sul lato sinistro della stele viene considerata, in ordine di tempo, l’ultima traccia di lavorazione antropica sul monumento, risalente forse al IV/III secolo a.C. circa.
Su questa iscrizione, che in caratteri latini possiamo riportare come "mezunemunius", sono state formulate diverse ipotesi, molte delle quali alquanto fantasiose, senza riuscire a dare una vera e definitiva interpretazione.
L’unica ipotesi accreditata, fino ad oggi, sostiene che, al di là dell’interpretazione della scritta, essa sia una trascrizione in caratteri etruschi di parole appartenenti alla lingue ligure, di cui si sa poco o niente.
Alcuni studiosi hanno considerato la possibilità che la stele possa essere stata riutilizzata come cippo d’ingresso al bosco sacro di monte Dragnone ma, anche questa affascinante supposizione, non ha potuto avere, per ora, riscontri archeologici certi.
Fatto sta che la sommità del Dragnone, oggi venerata in nome della Madonna, è stata venerata fin da tempi antichissimi, forse anche in relazione a divinità pagane esportate o traslate dal mondo celtico. I nomi di queste divinità sono andati perduti ma ciò che è rimasto, la ritualità del cerchio sacro e le spoglie archeologiche, ci danno una prova importante della loro esistenza e lanciano, ancora una volta, a noi nel presente, un messaggio di conoscenza che ha attraversato i secoli sopravvivendo ad un misterioso, remoto passato.

Note:
(1) AA.VV., Zignago 1: gli insediamenti e il territorio, Genova, CLSCM, 1977(2) Idem
(3) C. Gabrielli Rosi, Leggende e luoghi della paura tra Liguria e Toscana, Firenze, Pacini Editore, 1991(4) J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, Milano, Rizzoli Editore, 2006(5) Fonte: Soprintendenza Archeologica della Liguria(6) M.Giuliani (1964), Monte Burello e il culto ligure delle cime, in Archivio Storico per le Provincie Parmensi, serie IV, n. XVI, pp.39-47(7) A. C. Ambrosi, Corpus delle statue-stele lunigianesi, Borfighera, Ist. Internaz. di Studi Liguri, 1972


Monte Dragnone visto da Beverone

Monte Dragnone e Monte Castellaro. In basso la Gruzza di Vezzanelli


Il Santuario di N.S. del Dragnone visto da Monte Castellaro (in primo piano)



giovedì 4 novembre 2010

Itinerari: l'ex ferrovia Levanto-Bonassola


Dopo l’itinerario nella Levanto medievale, che abbiamo proposto nel post precedente, suggeriamo al turista curioso e attento questa breve e piacevole passeggiata che, ricalcando il percorso storico dell’ex ferrovia, conduce da Levanto a Bonassola.
La partenza è in località Vallesanta, poco distante dal principale parcheggio della cittadina, presso l’ex stazione ferroviaria, attuale sede della protezione civile. Qui, all’estremo ovest della baia di Levanto, proprio sopra la spiaggia libera, si trova la prima galleria, a cui si giunge tramite un modernissimo intervento urbanistico, il cosiddetto waterfront; edificazione che, inserendosi nell’ingombro dell’ex massicciata ferroviaria, offre una passeggiata lungomare dotata di panchine e aiuole profumate, unitamente ad altre iniziative immobiliari di dubbia utilità.
Bisogna iniziare con il dire che la tratta ferroviaria in questione fa parte del più ampio tragitto Sestri Levante-Monterosso che, a causa delle difficoltà di gestione legate all’estrema vicinanza col mare, fu chiuso al traffico ferroviario nei primi anni ‘70, sostituito dall’attuale impianto, più moderno e più interno alla costa. La creazione di questa tratta risale addirittura agli anni ‘60 dell’800 ed è stata inaugurata ufficialmente nel 1874. Si tratta di un’opera colossale, se pensiamo all’epoca in cui venne realizzata e che oggi, a quasi centocinquant’anni dalla creazione, si conserva pressoché intatta. Le gallerie, nella fattispecie, erano scavate totalmente a mano, con il solo ausilio di esplosivi e il materiale estratto era lavorato in loco ed utilizzato per la posa di tutte le strutture murarie necessarie.
La passeggiata da Levanto a Bonassola, assolutamente vietata ai mezzi a motori e consacrata a pedoni e ciclisti, è stata inaugurata nel marzo di quest’anno, dopo un paio d’anni di lavori di consolidamento e messa in sicurezza di alcune parti. Si tratta di un lavoro veramente eccellente, se si considera che in alcuni tratti l’erosione era stata tale da distruggere totalmente il piano stradale. I punti crollati sono stati ricostruiti con perizia, i muri consolidati, le gallerie rinforzate dove necessario, messe in sicurezza e illuminate e, dove il percorso si sviluppa all’aperto, è stata installata una robusta ringhiera metallica.
Il percorso, lungo circa 3 km, attraversa le serpentiniti della scogliera levantese e alterna soleggiati tratti all’aperto, da cui si gode la bellezza quasi incontaminata di una parte di costa che non ha conosciuto il turismo di massa, a tratti anche lunghi in galleria.
La prima galleria di Vallesanta, molto breve, rende già l’idea della pregevole architettura ottocentesca che accompagnerà l’intero percorso, con archi di pietra locale e mattoncino realizzati a regola d’arte. Subito prima di entrare, alla destra della galleria, si trova un casello ferroviario, attualmente abitazione privata. Dopo la seconda galleria, un ampio tratto all’aperto, costeggiato dal muro di contenimento della ferrovia, permette di respirare una boccata di aria di mare e di godere del tepore del sole. A sinistra, una spiaggia frequentata anche in autunno da saccopelisti offre una gradevole risacca. Sotto il livello dell’acqua, numerose grotte e anfratti si aprono, rivelando a coloro che amano le immersioni una biodiversità colorata e sorprendente.
La terza galleria è breve e conduce, dopo poche decine di metri dall’ingresso, ad un’apertura artificiale connessa con la galleria successiva, coperta da una singolare volta in mattoncino molto alta e sostenuta dalla massicciata, che è stata sapientemente rinforzata, pur mantenendone intatte le caratteristiche estetiche. È questo un punto dove la massicciata tocca il mare che, con la forza delle sue onde salate, ne aveva intaccato seriamente la solidità. In questo punto suggestivo si possono ammirare i virtuosismi edificatori che contraddistinguono questo tracciato ferroviario, tra cui spiccano le spallette d’arenaria che sovrastano la volta, le bocche delle due gallerie e l’accesso di una scaletta, ora scomparsa ma che esisteva fino a pochi anni fa, per accedere al di sopra della volta, talmente ripida che pareva sfidare la forza di gravità. Inoltre, si possono ammirare i particolari architettonici delle gallerie, l’uso di due materiali diversi, i blocchi di serpentino fino a due metri e mezzo da terra e poi i mattoncini per la volta e le numerose nicchie di servizio per i tecnici addetti alla manutenzione. Qua e là si notano anche alcuni segnali ferroviari realizzati con piastrelle bianche e nere e altre recanti una numerazione. Alla esatta metà della volta delle gallerie, è possibile notare la striscia nera lasciata dalla fuliggine delle locomotive a vapore, che per prime attraversarono la via ferrata.
Proseguendo, si imbocca la quarta galleria, piuttosto lunga, sbucando in vista del villaggio turistico “La Francesca” di Bonassola. Questa era la parte più seriamente danneggiata. Fino alla ristrutturazione, infatti, il piano stradale era stato completamente eroso dal mare per diversi metri e l’imboccatura della galleria era crollata. Ora, invece, la massicciata è stata completamente ripristinata, l’acqua di scolo della montagna soprastante è stata incanalata in due punti ed è stato creato uno spiazzo panoramico. L’ingresso della galleria è stato ricostruito in cemento armato rivestito di blocchi di serpentino ed è stato salvato e ripristinato (solo esternamente) il casello che ivi si trovava. Sebbene l’interno sia completamente distrutto, è ancora possibile notare la sede del camino, al piano terra, e la canna fumaria ancora annerita. Da notare anche l’ingegnosa architettura di una scaletta che permetteva l’ispezione dell’alto muro di contenimento della montagna, la cui solidità è vera prova di fine edilizia, dato che ad ogni pioggia consistente l’acqua esercita su di esso una notevole pressione.
A questo punto si entra nella quinta ed ultima galleria, la più lunga, che conduce direttamente a Bonassola. Questa galleria curva leggermente verso l’interno, per cui a metà strada non è possibile vedere né l’entrata né l’uscita, come in tutte le altre. L’illuminazione rassicura la marcia e, dopo aver superato un tratto dove la galleria assume una strana forma, rinforzato con chiavi d’acciaio e soggetto ad una pesante infiltrazione idrica, la volta si allarga, raddoppia e in un attimo si esce a Bonassola, che offre la visione ristoratrice della sua baia tranquilla e, al capo opposto di questa, la graziosa chiesa di Santa Rosalia.
Sui vicini scogli, un bunker tedesco residuato della guerra. A destra, ancora ampi archi della massicciata, color ruggine a causa di infiltrazioni ferrose.
Una passeggiata rilassante, adatta proprio a tutti, compresi portatori di handicap, che permette di godere alcuni tratti poco conosciuti di costa e di rivivere, almeno in parte, un frammento di storia recente che meriterebbe sicuramente di essere approfondito, magari anche con qualche pannello didattico che illustrasse la storia poco conosciuta dei primi viaggi ferroviari in Liguria.

Levanto, il Waterfront


Imbocco della prima galleria


Interno della terza galleria


Un tratto all'aperto


Apertura voltata tra due gallerie


Spallina in arenaria e ingresso alla scaletta ormai distrutta


La massicciata totalmente rifatta e il casello


Imbocco dell'ultima galleria


La baia di Bonassola

Itinerari: Levanto medievale

Levanto è una cittadina di mare, questo lo sanno tutti. Ci sono ampie spiagge attrezzate, locali, sentieri per il trekking, un porto turistico in cui approdare e, in inverno, addirittura onde adatte al surf. Ma quello che vogliamo qui proporre è un itinerario turistico non convenzionale, adatto a tutte le stagioni e godibile da coloro che non cercano solo di arrostire al sole o di gustare un buon gelato, ma la cui curiosità li spinge a cercare le tracce nascoste del passato.

Levanto nella cartografia Vinzoni (1773)

A Levanto, queste tracce non sono poi tanto nascoste; basta solo distaccarsi appena dal passeggio del lungomare, poco sopra i bagni e i ristoranti. Il medioevo di una ricca e potente cittadina, nobile vassallaggio genovese, affiora con affascinanti architetture e con percorsi suggestivi, permettendo all’immaginazione di ricostruire un paesaggio urbano unico e profondamente diverso da quello attuale.
Possiamo iniziare l’interessante percorso salendo dalla passeggiata mare in zona ex Casinò, tramite una breve scalinata tra le ville, fino al castello costruito nella seconda metà del XIII secolo, su una proprietà che era stata dei Malaspina, come baluardo difensivo del golfo levantese. Il castello, pur non avendo subito restauri di recente, si presenta assai ben conservato e mostra tutta la sua imponenza. Sfortunatamente, trattandosi di una proprietà privata, l’interno non è visitabile, ma è comunque godibile il panorama della Baia della Pietra e quello dell’entroterra, con il campanile della chiesa di Sant’Andrea che svetta sui tetti e sugli orti. Poco distante, seguendo la segnaletica, è possibile imboccare l’affascinante percorso delle mura che difendevano l’abitato. Discendendo tra i possenti muraglioni medievali, lungo una scalinata molto panoramica ma, purtroppo, un po’ degradata, si può imboccare un arco sulla sinistra che, dopo pochi passi porta all’ampio sagrato della chiesa gotica di Sant’Andrea, la cui bella facciata a strisce alternate di marmo bianco e serpentino locale presenta uno magnifico rosone istoriato. La chiesa, citata per la prima volta nel XIII secolo ma probabilmente più antica, conserva perfettamente i canoni estetici del gotico ligure e custodisce una lunga serie di pregevoli opere d’arte religiosa, visibili all’interno, tra cui il coro ligneo del XVI secolo, un crocifisso del XV secolo e numerosi dipinti e affreschi di varie epoche. Nella facciata si possono notare alcuni volti apotropaici antropomorfi, che si rifanno ad una antichissima tradizione pagana di cui si ha testimonianza in tutta la Liguria di Levante e Lunigiana.
Scendendo la scalinata del sagrato e percorrendo brevemente la via ad esso perpendicolare, ci si ritrova di fronte alla bellissima loggia del XIII secolo, tutelata dall’UNESCO e diventata ormai simbolo della Levanto storica. Tale loggia veniva utilizzata nel medioevo come punto di carico e scarico merci, nel contesto dell’antico porto commerciale. Infatti, fino quasi al XVI secolo, il torrente Cantarana, che ora scorre sotto la sede stradale, era navigabile, almeno nel primo tratto. Questo permise la creazione di un porto fluviale particolarmente protetto, in cui le imbarcazioni penetravano dal mare, che costituì per alcuni secoli il fulcro della vita della cittadina. Per ritrovare alcuni resti di quel porto così insolito, è sufficiente attraversare la strada prospiciente la loggia, ovvero quella che era la sede del canale navigabile, e inoltrarsi nella singolare atmosfera dei vicoli in cui sarà possibile ammirare numerose volte in serpentinite, ora murate, che un tempo accedevano ad altrettanti magazzini per lo stoccaggio delle merci.
La mente lavora non poco per ricostruire l’immagine unica di questo importante scalo commerciale, sostituendo un canale verde e placido alla strada e alla piazza antistante la loggia, immaginando i magazzini voltàti e l’estuario del torrente laddove oggi ci sono palazzine, stabilimenti balneari e bar. Il Cantarana oggi è uno scolatoio di acque montane, la cui portata non fa certo pensare ad un canale navigabile, anche se in passato l’afflusso doveva essere assai maggiore, se si pensa che furono i detriti portati a valle dal torrente ad interrare il porto, rendendolo inagibile al pescaggio delle barche e, quindi, decretandone la sua fine. Infatti, già nella cartografia Vinzoni (seconda metà del XVIII secolo), la foce del torrente appare assai distante dallo scalo medievale.
Ritornando alla piazza della Loggia, si imbocca il vicolo gradinato sulla destra, lungo il quale si può ammirare l’antica dimora dei Da Passano, potente famiglia alleata dei genovesi, che per un certo periodo ebbe il dominio su Levanto. Di particolare pregio, oltre ad alcuni archi in serpentinite di ottima fattura, il portale istoriato ben conservato, anche se inserito in un contesto architettonico raccapricciante.
Proseguendo per questa via, si arriva all’oratorio di San Giacomo, sede della omonima confraternita, e alla chiesa di Santa Maria della Costa attualmente in ristrutturazione. A sinistra di quest’ultima, il percorso si snoda brevemente tra le case e si ricongiunge con il tratto più suggestivo delle mura medievali. Qui si trova la Torre dell’Orologio, di sezione circolare e complementare alla struttura difensiva, in seguito (presumibilmente a partire dal XIX secolo) rimaneggiata per ospitare un grande orologio da campanile. La Torre svetta sopra tutta la cittadina, sovrastandola e offrendo un punto di riferimento a chi si muove nel paesaggio urbano. Da qui, il percorso delle mura, con i merli ancora ben conservati, gli unici che siano rimasti intatti, scende di nuovo fino al letto del Cantarana.
A questo punto, è necessario proseguire risalendo il corso del torrente. Per prima cosa si può notare la bellissima architettura duecentesca della nuova sede del Museo della Cultura Materiale e dell’ostello “Ospitalia del Mare”. Il palazzo è stato ristrutturato pochi anni fa dal Comune di Levanto ed è evidentemente costruito con i medesimi criteri di tutti gli edifici del porto fluviale, in elegante serpentino verde, per ospitare sia magazzini di stoccaggio, sia spazi per l’abitazione umana.
Contiguo a questo edificio, vi è il tratto più basso della cinta muraria, rappresentato dalla Porta dell’Acqua. Due torri, ai lati opposti del torrente, sono collegate da un camminamento sospeso di pregevole fattura. La torre di sinistra, guardando verso nord, presenta un varco verso la campagna, l’unica porta di accesso alla cittadina pervenutaci.
Passando da questa porta, si costeggia la destra idraulica del torrente, per poi attraversarlo su un grazioso piccolo ponte medievale. Seguendo il sentiero per poche centinaia di metri, attraverso una tipica creuza di campagna, si raggiunge la località di Prealba che, nel medioevo, costituiva probabilmente l’ager levantese. Il toponimo, di probabile origine romana, potrebbe essere ricollegabile alla presenza di una qualche formazione rocciosa calcarea o gessifera (petra alba = pietra bianca), della quale tuttavia non ci perviene memoria. Prealba è una zona dalla spiccata vocazione agricola, in cui si coltiva con successo l’olivo, che in passato veniva torchiato nel mulino ad acqua che sorge sul torrente, di cui rimane in vista la ruota metallica. Proseguendo tra i terrazzamenti coltivati, la mulattiera si inerpica sulle alture del Mesco e si ricollega con il sentiero CAI n° 1, che porta a Monterosso.
Tornando indietro, da Prealba verso la Porta dell’Acqua, è impossibile non notare un intervento urbano ancora in fase di realizzazione, il Residence Prealba, che appare davvero importuno della quiete e nella bella natura della valle. Si tratta di tre o quattro brutti condomini con parcheggio sotterraneo, che occupano l’ex area della rimessa ferroviaria, prossima alla galleria che conduceva a Monterosso. Si tratta di uno di quegli interventi di “edificazione selvaggia”, che hanno fatto di Levanto il paradiso degli speculatori immobiliari. Non solo il complesso è visivamente brutto, ma è anche invasivo e inopportuno, in quanto inserisce in un paesaggio agricolo e naturale un elemento urbanistico più adatto ad un centro città, la cui filosofia costruttiva è solo quella del profitto e del movimento di capitale. Inoltre, trovandosi il complesso a due metri dalla sede del torrente, si è anche infierito su un ambiente idrico specifico, per non parlare dei resti archeologici che ci si sarebbe aspettati di rinvenire numerosi durante un profondo scavo in questa zona, ma di cui invece non si sa nulla. Infine, l’iniziativa appare assolutamente inutile, inserendosi in un mercato che è universalmente definito “saturo” per eufemismo.
In ogni caso, rientrando nel contesto urbano tramite la Porta dell’Acqua, è possibile concludere la passeggiata con la risalita della cinta muraria, senza però negare uno sguardo al lavatoio presente presso il camping, adoperato dalle massaie locali fino alla fine degli anni ‘60.
Imboccando il vicolo che costeggia le mura, che in questo tratto mostrano tutta la loro imponenza, tra feritoie e finestrelle si risale fino al Castello, da cui l’itinerario aveva avuto inizio.
Questa gita è adatta a tutti, adulti e bambini, semplice e a portata di mano, ma rivelatrice di un patrimonio misconosciuto, a cui il turismo di massa preferisce enormemente le spiagge e i rumorosi diversivi dell’estate.
Da segnalare, come nota assai positiva, la presenza di cartelli e pannelli didattici che illustrano diversi aspetti della vita di Levanto nel medioevo, dalla Darsena alle Mura, al Palazzo Da Passano.
Volendo, è possibile visitare altri luoghi che appartengono al medioevo di questa cittadina, come l’ex convento delle Clarisse, attuale sede comunale; il convento dei Padri Agostiniani, sulle pendici del monte Ròssola; le rovine del monastero di Sant’Antonio del Mesco, uno dei punti panoramici più suggestivi delle Cinque Terre.


Il castello di Levanto


Il castello visto dalle mura


Chiesa di Sant'Andrea


Sant'Andrea - il rosone


La Loggia


Archi all'antica Darsena


I magazzini del porto fluviale


La Torre dell'Orologio e l'oratorio di San Giacomo


Casa Da Passano - portale istoriato


Antica Darsena - l'attuale Museo della Cultura Materiale


Le mura verso Prealba. Sotto la strada scorre il torrente Cantarana


La Porta dell'Acqua


Ponte medievale di Prealba


Le oscene costruzioni del Residence Prealba


L'imponenza delle mura sui vicoli



Tratto delle mura difensive inglobato nell'edilizia civile



Uno dei pannelli didattici della Darsena


Panorama sul centro storico di Levanto con il campanile di S. Andrea